Spese pazze per i prossimi mondiali di pallone. Un tenore di vita che esplode per alcuni, mentre alla maggior parte dei lavoratori toccano i vecchi stipendi da fame. E’ il gioco della globalizzazione, cui centinaia di migliaia di cittadini brasiliani hanno detto no, mettendo a soqquadro il Paese. Nonostante una repressione inaudita.
di Monica Di Sisto
«Brasile svegliati, un professore vale più di Neymar!». Per chi, come me, di pallone ne capisce poco e niente dico che Neymar è l’attaccante della nazionale brasiliana recentemente trasferito al Barcellona per 57 milioni di euro. Ma quello che ho riportato è lo slogan scandito dai manifestanti nei giorni di lotta che hanno infiammato il Paese fino a ieri. E questo il Brasile cui i suoi abitanti non vogliono arrendersi. Stadi sempre più avveniristici, favelas che scoppiano se possibile di più che in passato, trasporti urbani, i più usati dai lavoratori, che subiscono rincari verticali come il costo della vita, a misura di turista ma non di classe media. E’ la ricetta della tempesta perfetta scoppiata in Brasile, Paese ospite dei prossimi Mondiali di calcio 2014, in cui centinaia di migliaia di persone hanno detto basta allo scandalo riportando alla memoria quegli studenti che el ’92 riuscirono a far dimettere l’allora presidente Collor. Centomila a Rio, almeno 65mila a San Paolo, altri 70mila nelle altre principali città del Paese: sono riusciti a bloccare il Governo della (sulla carta) presidenta progressista Dilma e a bloccare almeno il rincaro dei trasporti.
Il Brasile ieri è sceso in piazza come non accadeva da quando il movimento dei “caras pintadas”, il movimento studentesco trasversale che riuscì ai far dimettere l’ex presidente Collor. Era il 1992 ma, a detta degli analisti, quanto sta accadendo oggi supera addirittura quelle dimensioni. Scontri frontali hanno opposto dimostranti e polizia a Fortaleza vicino allo stadio dove si stava svolgendo la partita per la Confederation Cup Brasile-Messico. La polizia ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i 30mila dimostranti che si erano dati appuntamento sulle strade di accesso allo stadio. Eppure nessun passo indietro. E come si fa, di fronte al costo della vita che cresce mentre le spese di Mondiale e Olimpiadi vengono considerate dal Governo prioritarie rispetto a quelle per salute, istruzione e trasporto pubblico? Tutte o quasi finanziate da denaro pubblico raccolto dalle tasse e, ultimamente, pagate anche con gli aumenti delle tariffe del trasporto il cui costo aumentato a 1,15 euro, a fronte di salari medi che si attestano intorno ai 300 euro al mese.
Pensiamo allo Stadio Mané Garrincha di Brasilia, con una squadra che vale circa 5mila tifosi a partita e già ristrutturato al modico prezzo di mezzo miliardo di euro. Oppure pensiamo allo stadio di Manaus, nel cuoredella foresta, dove non c’è nemmeno una squadra famosa ma invece le spese di maquillage sono state imponenti almeno quanto l’altro.
Joseph Blatter, all’inaugurazione della Confederation Cup, aveva invitato il pubblico che fischiava lui e la presidente Dilma Rousseff ad essere più “educato”, ma non c’è niente di corretto di sostenibile nei numeri dei Mondiali, e anche in Italia lo sappiamo bene. Solo che in Brasile, al contrario che da noi, la reazione è stata di massa e anziani e giovani, di fronte all’inconsistenza di pensioni e assistenza sanitaria di base, hanno unito le forze e gli slogan.
La prima vittoria è ottenuta: il caro-biglietto è scongiurato. Ma le spese pazze continuano, e Blatter ha confermato che “le manifestazioni non fermeranno il calcio”, appoggiato dal ministro dello Sport Aldo Rebelo anche se la presidente Dilma, quando la rabbia è esplosa, si è affrettata a precisare che le “manifestazioni pacifiche” sono “il sale della democrazia”. Il messaggio però è arrivato chiaro e forte: se il Brasile deve crescere, deve crescere tutto. E se la crescita è speculazione e cotillons, sempre più cittadini si chiamano fuori. Anche in Brasile. Anche sul pallone.
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