AUTOPRESENTAZIONE DI COSTANZO PREVE [SCRITTA DA LUI MEDESIMO]
Dal
momento che non sono collegato ad Internet e quindi non dispongo di un blog personale, alcuni amici mi hanno
cortesemente chiesto di scrivere una sintetica autopresentazione per poterla
poi mettere in Rete. Accetto con gratitudine.
Esporrò questa autopresentazione in alcuni punti
successivi, che anticipo subito:
1. Breve autocertificazione.
Dall'illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma
realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e
creativo.
2. La centralità della storia della
filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie
accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte
universalistico veritativo.
3. (1818-1883).
4. Un'interpretazione originale
della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue
origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.
5. Un'interpretazione della dinamica
complessiva di sviluppo del comunismo storico novecentesco realmente esistito
(1917-1991)
6. Un'interpretazione della natura
globale del “capitalismo assoluto”, postborghese e postproletario, che
caratterizza l'attuale momento storico.
7. Breve esposizione delle mie
opinioni politiche e geopolitiche nell'attuale momento storico.
8. Breve esposizione delle mie
opinioni ideologico-culturali nell'attuale momento storico.
Spero che questa esposizione in otto punti, di
diseguale importanza scientifica, filosofica ed autobiografica, possa
contribuire a rimettere l'eventuale discussione critica sul mio modesto
pensiero su binari più razionali e meno inquinati dai gossip e dalle affrettate ed
irresponsabili falsificazioni. Ovviamente esse non cesseranno e non possono
cessare, perché nutrono la società dello spettacolo (Debord) e della
chiacchiera, curiosità ed equivoco (Heidegger). E tuttavia ci si rivolge sempre
idealmente al “popolo invisibile” delle persone serie e desiderose di discutere
sulla base di informazioni veridiche e di stimoli critici.
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1. Breve autocertificazione.
Dall'illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma
realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e
creativo.
Le autocertificazioni autobiografiche devono essere
sempre prese con le pinze. La psicoanalisi freudiana ci insegna come il
soggetto si costruisce la propria storia passata ed il proprio profilo presente
sulla base di una lunga storia di rimozioni, sublimazioni ed adattamenti. Anche
i matti si autocertificano come Napoleoni, ma non per questo possono sfuggire
ad una visita psichiatrica. E tuttavia anche le autocertificazioni ci possono
dire qualcosa su di un individuo.
Nessuno sfugge all'influenza determinante del tempo
storico e dell'ambiente sociale in cui è “gettato” dalla casualità
dell'incontro dei propri genitori. Nel mio caso la prima decisione esistenziale
(fine anni cinquanta - inizio anni sessanta) fu quella di non accettare
l'insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo
piccolo-borghese dell'Italia dell'epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo
storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non
l'unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l'anarchismo, gli stili di
vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto
esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici,
sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava
“comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo
essersi autoproclamiti esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo.
La storia ci offre molti esempi di questo tipo.
E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la
mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell'ambiente che mi era più
vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità
ideologiche dominanti erano quelle dell'antifascismo azionista e dell'operaismo
sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee,
esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il
mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione
subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui
riconoscermi, ma da un'inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse
sia per l'antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per
l'identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il
mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non
significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici,
compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi
“militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si
prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna.
Dato il clima intellettuale del periodo storico
(1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non
potevo che essere attratto dalla figura dell' “intellettuale”, nella doppia
versione dell'intellettuale impegnato (Sartre) e dellì'intellettuale organico
(Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più
nemmeno un “intellettuale”. So bene che all'interno della divisione del lavoro
fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all'interno di una gerarchia
differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso
“intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di
profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed
un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali
di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il
loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E
tuttavia gli intellettuali a partire da fine ottocento sono un gruppo sociale
specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli
specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro
possono anche essere “intellettuali”, così come
un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore.
E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori
specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati.
Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del
novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti
e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di
intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di
essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire sia pure brevemente
il perché.
L'intellettuale impegnato (engagé) è quello
che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo
mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile,
corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non
riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli
rivoluzionari si impegna per l'esportazione imperialista armata dei cosiddetti
“diritti umani”, oscena protesi ideologica dell'impero americano distruttore
della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello
della comprensione del mondo ma è quello dell' “impegno”, si passa la vita in
una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente
narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad
esempio, Sartre si “impegnava” per l'Algeria, ma per la Palestina no
(probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli
oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda
e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari
dell'umanità”.
L'intellettuale organico è l'intellettuale che,
sulla base dell'interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di
produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario (vedi punto
6), si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal
momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua
immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o
“operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere
l'organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità
non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di
gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione
della società. Il fallimento è assicurato, ed il novecento ne è stato uno
scenario teatrale gigantesco.
Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e
caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e
filosofiche, rivendico però a mio onore l'avere capito fino in fondo che
l'autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli
“intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi
dialetticamente verso la rovina e l'autodissoluzione, che sono comunque sotto i
nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una
forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato
ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso,
giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non
dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il
problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente
(inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico,
ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare
di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si
intende compatibilizzare l'avanzamento di questa ipotesi con l'appartenenza a
gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre
automaticamente l'esclusione del reo.
Termino allora qui questa modesta
autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un
“intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più,
e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di
gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo
finalmente a parlare.
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2. La centralità della storia della
filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie
accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte
universalistico veritativo.
Io mi sono formato non solo professionalmente ma
anche esistenzialmente come studioso di storia della filosofia occidentale.
Questo studio ha caratterizzato la mia intera vita (oltre che permettermi di
guadagnarmi uno stipendio ed una pensione), e sarebbe quindi sciocco rimuoverlo
come qualcosa di poco rilevante. Il mio stesso interesse per Marx ed il
marxismo successivo è inseparabile dalla loro collocazione adeguata nel corso
di questa storia della filosofia.
A differenza di quanto accade nella pratica
concreta delle scienze naturali moderne, in cui esiste una differenza di
principio fra la storia delle scienze e la codificazione sistematica dei
paradigmi scientifici ritenuti unanimemente validi dalla comunità mondiale
degli specialisti, nella filosofia invece la pratica filosofica non può mai
essere unificata in un solo paradigma unanimemente accettato, e quindi non può
mai essere svolta senza un ritorno contestuale all'intera storia della
filosofia precedente.
Nelle scienze naturali moderne (il discorso sarebbe
diverso per le scienze sociali, il cui statuto è “intermedio” fra le scienze
naturali e la filosofia, senza però identificarsi con nessuno dei due) è
possibile raggiungere grandi risultati e diventare premi Nobel senza disporre
di serie conoscenze sulla storia della propria disciplina. Naturalmente la
conoscenza di questa storia può diventare un concreto fattore positivo quando
ci si trova di fronte a delle crisi di paradigma (Thomas Kuhn), in modo da
favorire il coraggio innovativo, ma resta comunque il fatto che è possibile
essere ottimi scienziati specialisti senza disporre di conoscenze approfondite
nella storia della propria scienza. Tutto questo è assolutamente impossibile
nel campo della filosofia.
La pratica della filosofia non coincide ovviamente
con la conoscenza della storia della filosofia. Ma essa ne presuppone
l'assimilazione profonda. Non è un caso che oggi l'impero americano, nel suo
tentativo simbolico di azzerare tutto il passato al di fuori della promessa
biblico-messianica con cui legittima la sua pretesa imperiale, istituzionalizzi
nei suoi apparati universitari una pratica della filosofia “analitica” priva di
dimensione storica. Se per “filosofia analitica” si intende l'analisi semantica
dei concetti, essa non nasce a Los Angeles o a Cincinnati ma nasce con
Aristotele di Stagira. Ma qui il tentativo di fare filosofia senza storia della
filosofia esprime simbolicamente il “creazionismo” dei concetti da zero,
cancellando la storia precedente come poco rilevante. Sia pure a mio avviso
poco soddisfacente ed insufficiente per il suo ostentato relativismo la
correzione di Richard Rosty sulla filosofia come “conversazione dell'umanità”
rivela l'autoconsapevolezza dei migliori filosofi americani di oggi della
natura folle della pratica astorica della filosofia analitica.
La prima storia della filosofia occidentale fu la
classificazione fatta da Aristotele e dai filosofi precedenti sulla base della
teoria tassonomica delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e
finale). Questa teoria è del tutto astorica ed inadeguata, e proprio per questa
sua astoricità è divenuta il modello di tutti i manuali di storia della
filosofia. Con questo, Aristotele resta ovviamente un grande, anzi un
grandissimo, ma sarebbe assurdo chiedergli cose che al suo tempo non potevano
essere prodotte culturalmente, dalla relativizzazione storica della schiavitù
alla teoria darwiniana dell'evoluzione, dal modello cosmologico copernicano
alla teoria dialettico-materialistica della genesi storica e sociale delle
categorie del pensiero, che presuppone la non ancora esistente ai suoi tempi
teoria marxiana dei modi di produzione sociali.
L'avvento del cristianesimo non poteva certamente
migliorare questa situazione, ma anzi la peggiorò. Se in Aristotele la classificazione
filosofica si basava sul presupposto astratto ed astorico della tassonomia
aprioristica delle quattro cause, con l'avvento del nuovo monoteismo rivelato
la filosofia diventa “ancella della teologia” e la sua pratica passa
sotto il controllo di apparati ecclesiastici che hanno anche il potere di
persecuzione e di interdizione. L'ultimo esempio storico (per ora) di questa
subordinazione della libera pratica filosofica ad apparati teologici dotati di
protesi poliziesche armate è stato quello della teologia atea del materialismo
dialettico sovietico, il cui studio è enormemente facilitato dall'accurato
studio di sistemazioni teologiche precedenti (confucianesimo imperiale cinese,
ordini francescani, domenicani e gesuiti, eccetera).
L'illuminismo settecentesco e Kant riportano lo
studio della storia della filosofia su basi razionalistiche e non più
subordinate alla compatibilità coattiva con la teologia. In un certo senso, si
tratta di un ritorno al metodo aprioristico delle quattro cause di Aristotele. Ma
tutti gli apriorismi, da Aristotele a Kant, mostrano un (spesso involontario ed
in buona fede) rifiuto della storicità, e della consapevolezza per cui le
categorie filosofiche non hanno solo la storicità della loro discussione
pluralistica differenziata successiva, ma hanno anche la storicità della loro
genesi e del loro sviluppo.
E' stato il grande Hegel il primo pensatore che ha
messo a mio avviso su basi metodologiche corrette la storia della filosofia
occidentale, il che non significa ovviamente che non abbia potuto sbagliare o
essere “ingeneroso” su singole valutazioni particolari (Epicuro, eccetera). La
storia della filosofia di Hegel rifiuta sia la subordinazione alla teologia
(Tommaso d'Aquino, marxismo sovietico, eccetera), sia la classificazione
aprioristica sulla base di tassonomie astratte (teoria delle quattro cause di
Aristotele, terza via fra razionalismo ed empirismo in Kant, eccetera). La
storia della filosofia diventa il percorso progressivo dei grandi
dell'autocoscienza razionale dell'umanità, e questa impostazione si vuole
direttamente polemica con la concezione della storia della filosofia come
successione di “opinioni” largamente casuali dei filosofi, ed anche della
storia della filosofia come semplice “contestualizzazione” dei sistemi di
pensiero al periodo storico e geografico dato.
Quella di Hegel è stata ovviamente una rivoluzione
nella storia della filosofia, che l'ha messa su basi più solide di quelle
precedenti di Aristotele e di Kant. Tuttavia essa soffriva di alcuni difetti
strutturali, che sarebbe sbagliato sottacere. In primo luogo, non c'era (e non
ci poteva essere) una vera deduzione sociale delle categorie filosofiche, per
il semplice fatto che Hegel non ignorava soltanto la teoria dell'evoluzione di
Darwin, ma ignorava soprattutto la teoria dei modi di produzione sociali di
Marx. In secondo luogo, c'era una sottovalutazione evidente ed anzi ostentata
delle tradizioni filosofiche non occidentali (indiana, cinese, eccetera), in
quanto la storia del pensiero umano era fatta iniziare con il solo mondo greco.
In terzo luogo, la storia della filosofia era ricostruita come una sorta di
“grande narrazione” rigida e monolineare, in cui non erano di fatto consentite
delle “uscite laterali”, e tutto l'apparato concettuale era cucito insieme in
un solo grande nastro. In quarto luogo, infine, questo mirabile apparato
concettuale di fatto “precipitava” teleologicamente in un punto, e questo punto
diventava di fatto il coronamento finale insuperabile di tutte le possibili
filosofie, e cioè la sistemazione hegeliana dell'idealismo.
Questi quattro difetti (ed altri ancora che qui
trascuro per brevità) non distruggono però il grande avanzamento effettuato da
Hegel nei confronti del precedente astrattismo aprioristico di Aristotele e di
Kant. Gli insulti di Schopenhauer e di Kierkegaard ed i rilievi di Feuerbach e
di Trendelenburg, infatti, non toccano il cuore teorico dell'impresa hegeliana,
che sta appunto nell'aver cercato di “concretizzare” storicamente le vicende
del pensiero filosofico superando sia la subordinazione servile alla teologia sia
le classificazioni aprioristiche di Aristotele e di Kant. Che poi questo sia
avvenuto con difetti anche gravi è oggetto di collocazione e di
contestualizzazione storica posteriore.
E veniamo a Marx, o più esattamente alla
rivoluzione marxiana, che non può che riguardare anche la storia della
filosofia così come si era svolta fino a lui. E tuttavia Marx non si è mai
occupato del problema della storia della filosofia occidentale, ma solo della
critica dell'economia politica e della teoria della successione storica dei
modi di produzione. Il suo contributo al tema che ci interessa non può quindi
che essere indiretto, implicito e metodologico. Esso non deve essere cercato
nelle opinioni pur acute che ha espresso su singoli filosofi (Democrito,
Epicuro, Aristotele, Feuerbach, Hegel, eccetera). Esso deve essere cercato nel
suo metodo “materialistico” di deduzione sociale delle categorie, metodo da
tenere ben distinto dalla deduzione trascendentale di Kant ed anche dalla
catena teleologica e di fatto necessitata di Hegel. Nessuno può allora parlare
“in nome di Marx”, oppure ritenere di sapere “che cosa avrebbe detto Marx”.
Queste sono sciocchezze religiose. Il problema sta nel sapere se Marx apra un
campo metodologico più produttivo di quello di Aristotele, Kant o Hegel nello
specifico campo della ricostruzione razionale della storia della filosofia
occidentale.
A mio avviso sì. Utilizzando criticamente il metodo
di Marx si può tentare di disegnare una ricostruzione della storia della
filosofia sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, da non
confondere con la semplice “aggiunta integrativa” di informazioni sul contesto
storico. E tuttavia, questo utilizzo del metodo marxiano non può essere
disgiunto da una serie di spregiudicate critiche allo stesso Marx.
In primo luogo, bisogna respingere l'idea utopica
dell'abolizione della filosofia nel senso della sua integrale realizzazione. Si
tratta di un'utopia escatologica di origine romantica, che a sua volta era
l'esito di una maldestra secolarizzazione di una precedente escatologia
religiosa di tipo messianico. La filosofia è invece un'attività umana
permanente, che trova la sua radice antropologica nel “domandare” umano sul
senso complessivo dei destini individuali e collettivi.
In secondo luogo, la negazione di fatto compiuta da
Marx della concezione filosofica veritativa di Hegel, cui Marx intende
sostituire integralmente una concezione “scientifica” (nel senso di liberata da
presupposti filosofici) della conoscenza della natura e della società, porta e
non può non portare ad una forma di nichilismo ontologico, nichilismo
ontologico che assume la forma del relativismo sociologico. In questo modo la
filosofia è di fatto ridotta ad ideologia, o meglio a copertura sofisticata di
interessi sociali di classe. Ma se Platone “esprime” gli interessi della classe
aristocratica ateniese e Kant “esprime” gli interessi della protoborghesia
tedesca nascente, eccetera (ed inoltre Gentile esprime gli interessi del
fascismo, Lukács dello stalinismo e Heidegger del nazionalsocialismo), allora
la filosofia perde ogni valenza veritativa universalistica ed è di fatto
ridotta alla sua “ricaduta” ideologica. Se si persevera su questa strada si
evita certamente lo Scilla della classificazione astorica ed aprioristica (Aristotele,
Kant, e soprattutto il 95% della manualistica in cui la filosofia è ridotta a
dossografia, e cioè ad elencazinoe diseducativa di opinioni), ma per cadere nel
Cariddi del relativismo sociologico degli “interessi economici” sublimati
ideologicamente in pretese di verità eterne più o meno trascendentali.
Per passare fra Scilla e Cariddi bisogna disporre
di una nave robusta e di un buon pilota. Occorre quindi tenere insieme
concretamente il punto di vista della genesi sociale e storica delle categorie
filosofiche con il punto di vista dell'autonomia e della veritatività della
conoscenza specificatamente filosofica. La storia della filosofia è una
disciplina che prima di tutto insegna l'umiltà, perché occupandoci di Platone
Spinoza o Hegel ci liberiamo delle velleità narcisistiche di onnipotenza e
scopriamo che ciò che vorremmo dire è già stato detto in passato ed ancora
meglio di quanto riusciamo a fare noi. Ma a fianco dell'umiltà essa ci insegna
anche il coraggio, e cioè il coraggio di tentare interpretazioni nuove e di
osare anche la manifestazione del nostro dissenso con “mostri sacri” che
restano ciò nonostante al di sopra di noi (Spinoza, Marx, Hegel, eccetera).
Ed è appunto ciò che oserò fare nel prossimo terzo
paragrafo.
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3. Un'interpretazione originale del
pensiero di Karl Marx (1818-1883).
Da più di un secolo il profilo espressivo
complessivo del pensiero di Karl Marx è oggetto di interpretazioni di alto
livello filologico e teoretico, e allora la “concorrenza” è forte. La fusione
ideologico-storica fra interpretazione di Marx e politica del comunismo storico
novecentesco realmente esistito (1917-1991) ha creato per quasi un secolo un
clima “medioevale”, in cui la libera discussione su Marx era subordinata al
controllo poliziesco di apparati inquisitori di partito e di stato. L'attuale
situazione, in cui la discussione su Marx è di fatto sequestrata da apparati
specialistici universitari di “sinistra”, che la mescolano spesso con il
Politicamente Corretto e con la cultura radicale post-sessantottina (pacifismo,
femminismo, eccetera), è solo apparentemente migliore della precedente, in
quanto almeno non c'è da temere l'incarceramento e la morte, ma è altrettanto
insoddisfacente, perché la persecuzione ideologica precedente rivelava pur
sempre indirettamente la rilevanza storica gigantesca del pensiero di Marx,
mentre l'incorporazione attuale in alcuni apparati universitari globalizzati
anglofoni di “sinistra” ne testimonia la sostanziale irrilevanza. E' possibile
però che la situazione attuale sia provvisoria, ed il pensiero di Marx,
opportunamente modificato e revisionato, possa riacquistare fra qualche
decennio una funzione politica rivoluzionaria. Improbabile è però che tutto
questo possa avvenire nel corso della mia vita terrena.
Fra i molti esempi possibili, ricordo qui i due
profili complessivi di Marx proposti da Karl Korsch negli anni trenta e da
Louis Althusser negli anni sessanta del novecento in Europa. Tralasciando qui
le importanti differenze fra il teorico tedesco e quello francese ricordo che
in entrambi i casi si è di fronte ad un sostanziale rifiuto di intendere Marx
come un filosofo della storia. Per Korsch Marx è un teorico del solo modo di
produzione capitalistico, e non di un'intera storia universale, ed il criterio
della scientificità dei suoi enunciati sta nella capacità reale del soggetto
operaio, salariato e proletario di agire collettivamente in modo realmente
anticapitalistico. Per Althusser Marx è stato lo scopritore scientifico del
Continente Storia, e questa scoperta scientifica implica la riduzione dello
spazio filosofico a semplice spazio epistemologico, “scaricandone” tutte le
precedenti illusioni metafisiche, umanistiche e storicistiche, e recuperando
nello stesso tempo un concetto di critica dell'economia politica come spazio di
lotta di classe integrale nei rapporti di produzione.
Ho voluto partire dalle interpretazioni classiche
di Korsch e di Althusser, che pure considero di altissimo livello critico e di
grande interesse storiografico, per poter affermare subito per differenza il mio radicale dissenso con il
loro approccio. Io ritengo infatti che la capacità rivoluzionaria della classe
operaia, proletaria e salariata non debba essere messa a criterio in
ultima istanza della cosiddetta “scientificità” del marxismo (Korsch), e non
ritengo affatto che lo statuto filosofico del pensiero di Marx debba essere
eliminato in nome di una pura “scienza strutturale” della società capitalistica
(Althusser). Ritengo inoltre che Marx sia filosoficamente un idealista e
politicamente un comunitarista, anche se questi “ismi” sono del tutto
ingannatori ed inadeguati. Penso inoltre che quella di Marx sia a tutti gli
effetti una filosofia della storia. Ma andiamo con ordine.
L'ispirazione unitaria del pensiero di Marx sta
certamente nell'idea di critica, e più esattamente di critica radicale
dell'esistente. Critica dell'economia politica borghese-capitalistica, prima di
tutto, ma anche critica del diritto, critica della religione, critica della
filosofia, eccetera. In questo senso, Marx non è allievo di Hegel, perché Hegel
aveva arrestato la sua critica al presente, sottraendo questo presente stesso
alla sua critica spietata. E nello stesso tempo Marx resta un allievo del suo
metodo e della sua ispirazione, perché Hegel aveva trasformato l'intero spazio
della storia della filosofia e della società precedenti in uno spazio di
critica radicale. Ciò che Marx fa, e che Hegel non aveva fatto, è estendere il
metodo critico al presente. Se comunque prestiamo attenzione al fatto che Hegel
aveva criticato realtà politico-economiche a lui contemporanee (giacobinismo
francese, liberalismo inglese, conservatorismo di Metternich, eccetera),
vediamo che anche su questo punto Marx non era poi così lontano da Hegel.
La radice hegeliana del pensiero di Marx sta però
in due specifiche “eredità” hegeliane, e cioè nella sua elaborazione ulteriore
di due figure hegeliane precedenti, le figure del riconoscimento del lavoro
dello schiavo rispetto al signore e dell'elaborazione della cosiddetta
“coscienza infelice”. E' questo il punto da cui partire per cominciare a
delineare un profilo espressivo di Marx in quanto pensatore complessivo.
Entrambe queste figure provengono dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel del 1807, il capolavoro
che fa da presupposto filosofico del Capitale di Marx del 1867. Non solo, ma
queste due figure, convenientemente elaborate dialetticamente, fanno da
presupposto indiretto alla teoria marxiana dell'alienazione, la quale a sua
volta fa da presupposto al modo specifico in cui Marx tratta la teoria del valore-lavoro.
In breve, i passaggi sono tre:
( a ) Elaborazione dialettica delle due figure
hegeliane del riconoscimento del riconoscimento del lavoro del servo e della
coscienza infelice. Il servo prende coscienza attraverso il lavoro di
essere il creatore della ricchezza con cui vive il signore e ne cerca il
riconoscimento, che però è impossibile finché lo sfruttamento sta alla base
della riproduzione sociale complessiva. Il borghese rpende coscienza – e ne
resta così inquieto, o meglio “infelice” - che il suo universalismo
razionalistico è illusorio ed impossibile finché permane lo sfruttamento, e da
questa coscienza infelice (che per Hegel è ancora pienamente religiosa, ma che
Marx poi laicizza, o se vogliamo “secolarizza”) si origina la specifica filosofia
della storia di Marx, basata sulla progressione dei tre momenti successivi
della dipendenza personale (forme di sfruttamento precapitalistico),
indipendenza personale (forme di sfruttamento borghese-capitalistico), ed
infine libera individualità (comunista).
( b ) Il concetto di alienazione, lungi dal
secolarizzare la tesi religiosa della rottura di un'unità originaria e la
conseguente formazione di un “mondo a testa in giù” (Lucio Colletti), e lungi
dallo “spostamento semplice” dalla critica religiosa di Feuerbach alla
critica dell'economia politica di Marx, deve essere inteso come “ricaduta
antropologica” ed esistenziale della lotta per il riconoscimento del lavoro del
servo e della coscienza infelice per l'impossibilità della universalizzazione
reale dei valori umanistici borghesi. Ma il riconoscimento integrale è
incompatibile con lo sfruttamento, e così pure è incompatibile
l'universalizzazione reale con il mantenimento dello sfruttamento.
( c ) L'analisi marxiana del valore presuppone
l'acquisizione del concetto di alienazione. Questo non significa, a rigore, che
vi sia un'equazione integrale fra teoria filosofica dell'alienazione e teoria
economica del valore (Lucio Colletti e Claudio Napoleoni sulla scorta della
tesi di Isaac Rubin avanzata già negli anni trenta). Significa però che c'è un
rapporto di dipendenza fra la premessa filosofica dell'alienazione e la
conseguenza economica della teoria del valore di scambio della forza-lavoro
umana come scambio ineguale sotto l'apparenza dello scambio di equivalenti.
In base a questa sommaria ricostruzione si ha una
prima conclusione: il pensiero di Marx sorge dall'elaborazione della coscienza
infelice del mancato universalismo reale (o, se si vuole, “materiale”) delle
stesse promesse del precedente universalismo borghese. Essa è quindi il
prodotto di un momento autocritico radicale della forma di coscienza
“borghese”, che si è poi “incontrata” in un secondo tempo con un autonomo
processo “proletario” di contestazione dell'esistente. E' possibile connotare questo
incontro teorico come un incontro “pratico” fra l'idealismo (coscienza infelice
dell'impossibilità universalistica delle promesse borghesi) ed il materialismo
(autonomo movimento di rivendicazioni materiali da parte dei nuovi ceti di
lavoratori salariati e “proletarizzati” dall'accumulazione primitiva borghese
del capitale).
Accertato questo primo punto, passiamo al secondo.
Ed il secondo sta in ciò, che bisogna ridiscutere dalle fondamenta il problema
della dicotomia fra Idealismo e Materialismo in Marx.
Il profilo filosofico complessivo di Marx non ha
soltanto “tracce giovanili di idealismo poi superate” (Althusser), oppure
“contatti con l'idealismo di Hegel pur all'interno di un rigoroso materialismo”
(Lukács), ma è invece idealistico al cento per cento, nel senso dell'idealismo
monomondano moderno che ha come “scienza filosofica” di riferimento la Storia,
o più esattamente la storia universale dell'intera umanità pensata
unitariamente come unico concetto trascendentale riflessivo e caratterizzata da
una dialettica triadica. I riferimenti moderni della filosofia di Marx sono
molti, ma i principali possono essere trovati in Spinoza, Rousseau, Fichte ed
infine naturalmente Hegel, riferimento massimo e principalissimo. Non ha dunque
senso alcuno parlare di marxismo anti-hegeliano, ma neppure di marxismo
hegeliano. Questa contrapposizione dicotomica è fatta per fuorviare ed
ingannare. Marx è un filosofo idealista indipendente, con caratteristiche
specifiche ed inimitabili, ed ogni “comparazione” finisce per fare torto alla
sua marcata e specifica originalità.
L'idealismo di Marx si basa sulla centralità del
presupposto della centralità della storia universale dell'umanità pensata come
unico concetto trascendentale riflessivo, e quindi necessariamente “ideale”.
Secondo il modello di Hegel (ben distinto dal modello dell'idealismo di Platone
basato sulla partecipazione e sull'imitazione e dal modello neoplatonico basato
sul progressivo allontanamento da una unità primitiva ed originaria), l'Idea
diventa Spirito, e cioè idea autocosciente di sé, soltanto attraverso un
processo di “alienazione” in cui si sviluppa dialetticamente il “potere del
negativo”. Per Marx la comunità originaria viene presupposta (senza nessuna
tentazione primitivista o naturalistica di tipo russoviano), ma non è pensata
come origine di una rottura semplice alienata “a testa in giù” (Lucio Colletti,
letture variamente religiose di Marx). La storia si svolge progressivamente
come insieme di scissioni, ed a loro volta le scissioni vengono indagate nella
forma dei rapporti classistici dicotomici dei diversi modi di produzione.
L'ultimo modo di produzione storico preso in considerazione da Marx, quello
borghese-capitalistico, fa anche da presupposto per il possibile (nel senso
della potenzialità aristotelica del dynamei on, vedi Vadée) rovesciamento
dialettico nel comunismo. Ed il comunismo per Marx coincide di fatto con
l'autocoscienza dello Spirito in Hegel (Geist), in quanto l'umanità può
essere finalmente messa in grado di riconoscere se stessa nella sua storia
(oppure, detto in linguaggio darwiniano, l'anatomia dell'uomo è la chiave per
capire l'anatomia della scimmia, e non viceversa).
Questo profilo filosofico complessivo integralmente
idealistico pensa però se stesso (in falsa coscienza necessaria, per usare una
concettualizzazione marxiana) attraverso la metafora obbligata del materialismo
e del concetto metaforico di Materia. Questo concetto, tuttavia, lungi
dall'essere soltanto metaforico ed “ornamentale”, produce effetti reali di conoscenza,
e permette di concettualizzare spazi conoscitivi ed ideologici particolari. Ne
elenco qui in particolare cinque, di importanza diversa. Non è necessario
gerarchizzarli, ma se lo si vuole fare è sempre possibile farlo:
(1)
La materia è metafora di prassi, ed in particolare di prassi rivoluzionaria
anticapitalistica, che si opporrebbe alla presunta “contemplazione passiva”
idealistica. In realtà l'idealismo (Fichte, eccetera), lungi dall'essere un
pensiero della contemplazione o della “interpretazione” (tesi su Feuerbach del
giovane Marx), è per natura un pensiero della trasformazione attiva (vedi in
Fichte rapporto tra Io e Non-Io).
(2)
La materia è metafora di struttura. La società non viene così “idealisticamente”
considerata come un tutto retto da opinioni, convinzioni, idee e valori etici
trascendentali e/o razionalistico-immanentistici, ma viene storicizzata in
successione di modi di produzione ed infine ideologie e sistemi ideologici
oppositi di giustificazione e/o di contestazione.
(3)
La materia è sinonimo di ateismo, e cioè di inesistenza di Dio inteso come demiurgo
materiale del mondo e come giudice in ultima istanza del bene e del male. Viene
così chiamato “materialismo” il punto di vista della autopoiesi progressiva
materiale dell'universo senza alcun intervento progettante divino e della
connessa origine genetica dei valori morali e religiosi all'interno dello
sviluppo storico.
(4)
La materia è metafora della fragilità umana individuale e delle
connesse necessità del solidarismo comunitario. L'uomo è un animale
particolarmente fragile e “non-specializzato”, riduttore della complessità e
del carico di stress (Belastung), ed è quindi
ad un tempo necessario e giusto che viva in una comunità solidale, forma
sociale “materialmente” corrispondente all'idealità della sua autocoscienza
complessiva di superamento dell'alienazione.
(5)
La materia è metafora della necessaria contrapposizione dicotomica nel mondo
borghese capitalistico per pensare il concetto di “libertà”, opponendo
la libertà formale (borghese) alla libertà materiale (comunista). Marx è
infatti un pensatore della libertà, ed il considerarlo un pensatore del
livellamento egualitario forzato è un errore filologico e filosofico.
Queste cinque specificazioni metaforiche di
“materia” non esauriscono il tema, ma sono sufficienti per rimettere su nuove
basi il problema dell'interpretazione complessiva del profilo di Marx. Non si
parla qui dei suoi contributi “economici” (teoria della crisi capitalistica,
teoria del plusvalore assoluto e relativo, eccetera). Si parla qui
esclusivamente del suo profilo complessivo di pensatore. E questo è il secondo
punto che mi premeva di chiarire.
Il terzo ed ultimo punto sta nel fatto che in Marx
c'è ovviamente il “classismo”, con le connesse teorie fondanti della
lotta di classe e della dittatura del proletariato, ma questo classismo è un
mezzo e non un fine, ed è anzi messo al servizio di una forma di comunitarismo.
La tattica è il classismo, ma la strategia storica è il comunitarismo. Sia Aristotele
che Hegel possono essere considerati dei precursori dello specifico
comunitarismo di Marx. Né Aristotele né Hegel sono ovviamente “comunisti”, ma
su questa ovvietà non ha neppure senso soffermarsi. Lo specifico “comunitarismo
comunista” di Marx, che ha come fondamento ontologico-antropologico il concetto
di “ente umano naturale generico” (Gattungswesen), non deve essere
ovviamente confuso con le varie forme preborghesi di comunità (Gemeinschaft),
che hanno nutrito la polemica della cultura moderna di “destra” contro
l'individualismo borghese.
Riepiloghiamo: bisogna avere il coraggio di
proporre un'interpretazione complessiva di Marx, sapendo perfettamente che essa
non può mai essere né quella “giusta” (non avendo mai lo stesso Marx
sistematizzato e coerentizzato le sue concezioni), né tantomeno quella
“definitiva”, perché ogni generazione storica ha sempre il diritto ed il dovere
sovrani di reinterpretare i grandi pensatori; il pensiero di Marx è il prodotto
di una particolare elaborazione della coscienza infelice della protoborghesia
europea del tempo della giunzione di tre componenti teoretiche (illuminismo,
romanticismo e positivismo), che si incontra con un'autonoma corrente di
opposizione proveniente dalle classi subalterne, operaie, salariate e
proletarie; il pensiero di Marx è una forma integrale, rigorosa, radicale e
soprattutto originale di idealismo, che utilizza metaforicamente il concetto di
materia (e di conseguenza di materialismo) in cinque principali significati,
che a loro volta però producono decisivi “effetti di conoscenza”; infine, la
filosofia politica di Marx è una forma di comunitarismo, che utilizza il
classismo proletario esclusivamente come mezzo tattico di contestazione del
capitalismo.
---------------------------------------------
4. Un'interpretazione originale
della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue
origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.
Ci si aspetterebbe che il metodo di Marx venisse
prima di tutto applicato a se stesso, dando luogo non solo ad una valutazione
critica “marxista” di Marx stesso (che non può ovviamente coincidere con la
riproduzione acritica delle opinioni soggettive con cui lo stesso Marx
interpretava se stesso), ma ad una storia marxista del marxismo e dei marxismi
successivi. Niente di tutto questo. Sono in circolazione dossografie
“opinionistiche” di storia del marxismo di carattere partigiano-ideologico, in
cui ogni corrente esalta se stessa ed insolentisce e demonizza le altre. Questa
pittoresca incapacità di autovalutazione “materialistica” (qui il termine di
“materia” è usato come metafora di capacità di autoriflessione critica) ha
anch'essa ovviamente una spiegazione materiale, dovuta alla precoce
religiosizzazione dogmatica del marxismo come ideologia di salvezza e di
riscatto delle classi subalterne, precoce religiosizzazione dogmatica che
sacralizza la storia, sostituita alla vecchia divinità monoteistica, e che si
dota di un apparato clericale ed inquisitorio che sostituisce al libero
dibattito il controllo poliziesco sui dissenzienti.
E tuttavia una storia marxista del marxismo resta
sempre possibile, purché si distingua preliminarmente fra due dimensioni
teorico-pratiche distinte, anche se interconnesse:
(1)
La teoria di Marx è una scienza filosofica nel senso idealistico del
termine, che comprende nel suo codice teorico due aspetti di fatto
inscindibili, anche se astrattamente separabili, e cioè una interpretazione
filosofica della storia universale intesa come concetto unitario trascendentale
riflessivo, ed una “ricaduta” epistemologica costituita dal concetto di modo di
produzione con le sue tre articolazioni dialetticamente interconnesse (forze
produttive, rapporti sociali di produzione, ideologia). In quanto scienza
filosofica, la teoria di Marx non può per sua propria natura assumere il
profilo delle scienze naturali (Galileo) o delle scienze sociali (Max Weber),
in quanto la valutazione morale, o se si vuole il giudizio di valore
assiologico (nel nostro caso: il capitalismo è negativo, perché aliena e
sfrutta), non può essere separato dalla conoscenza “oggettiva” (o meglio,
oggettivata) dei rapporti economici e sociali esaminati.
(2)
La teoria di Marx non è direttamente una ideologia (al massimo, potrebbe essere una
cattiva scienza filosofica, o una scienza filosofica migliorabile togliendone
gli aspetti deterministici e/o utopici, eccetera), ma nel momento in cui se ne
impadroniscono forze sociali reali per utilizzarla come profilo politico
identitario di appartenenza, non può necessariamente che assumere un aspetto ideologico. E' dunque scorretto sostenere
che l'ideologizzazione del pensiero di Marx è frutto di un “errore”, di un
“fraintendimento”, di un “tradimento”, eccetera.
Anche il marxismo, quindi, deve essere indagato
secondo il metodo della deduzione sociale delle categorie. Questo metodo è di
difficilissima applicazione (vedi secondo paragrafo), in quanto deve tenere
insieme un elemento storico-genetico, necessariamente relativistico e
sociologico, con un elemento filosofico-veritativo, che per principio non
riduce e non può ridurre la produzione teorica a semplice “riflesso”
economicistico di interessi sociali di gruppo. E tuttavia, anche se difficile,
si tratta di un metodo perseguibile. Il marxismo successivo a Marx, quindi,
deve essere indagato anch'esso con il metodo della deduzione sociale
delle sue categorie, unito alla necessaria consapevolezza dell'intreccio fra la
storia del suo codice originario di scienza filosofica e la storia del
successivo intreccio delle ideologie di legittimazione, manipolazione ed
appartenenza.
Il primo codice marxista sistematizzato e
coerentizzato (si noti bene: il primo, non il secondo, perché Marx non è mai
stato “marxista”, o lo ha anche esplicitamente dichiarato), fu elaborato e
sistematizzato congiuntamente da Engels e Kautsky nel ventennio
1875-1895. In termini freudiani, si tratta della “scena primaria” del marxismo,
quella che non si dimenticherà mai più dopo averla vista. Esso fu elaborato (e
non avrebbe potuto essere diversamente) sulla base di una committenza indiretta della socialdemocrazia tedesca
del tempo, unita ad un influsso diretto del principale paradigma
filosofico-scientifico borghese dominante, quello del positivismo. La chiave
metodologica cui applicare la deduzione sociale delle categorie deve quindi
prendere in considerazione l'intreccio sociologico-culturale di committenza
indiretta (CI) e di influsso diretto (ID). Sapere se il già defunto Marx
sarebbe stato d'accordo o meno con questo codice sistematizzato e coerentizzato
è cosa da lasciare agli evocatori delle anime dei defunti ed ai lettori di
Nostradamus. La mia personale opinione può essere riassunta così: non sarebbe
stato d'accordo, ma nello stesso tempo non avrebbe potuto in alcun modo
opporsi, ed il suo storicismo un po' “nichilistico” lo avrebbe probabilmente
portato alla storicistica conclusione per cui in fondo il reale era razionale,
e se il suo pensiero era stato assimilato in questo modo era impossibile che
ciò avvenisse in altro modo.
Il codice marxista originario (1875-1895) era
quindi una sorta di Grande Narrazione Positivistica (GNP). Spieghiamoci meglio.
Il modello di scientificità positivistica (determinismo, prevalenza del
cosiddetto “fattore economico”, irrilevanza della personalità nella storia,
eccetera) era innestato su di un discorso ideologico di tipo
progressistico-borghese, dando luogo ad un vero e proprio “ircocervo”, e cioè
un Determinismo Teleologico Integrale (DTI), per cui il capitalismo sarebbe
necessariamente ed infallibilmente evoluto in socialismo. Ritengo che sia
antistorico irridere ingenerosamente questo penoso parto metafisico con la
consapevolezza dell'oggi. In base alla deduzione sociale della categoria,
bisogna relazionare questo modello ormai intollerabilmente obsoleto al tempo
storico che lo ha prodotto. In base alla valutazione veritativa, bisogna invece
dire che questo modello non solo non era “vero” (e non era neppure certo ed
esatto – al massimo era veridico, nel senso che era creduto veridicamente
tale), ma era cattivo. Nello stesso tempo, probabilmente corrispondeva
all'incurabile subalternità del suo soggetto di riferimento, che evidentemente
“pretendeva” una religione imperfettamente laicizzata, che da un lato
corrispondesse alla “vera scienza”delle università borghesi e dall'altro
mantenesse la promessa del lieto fine emancipativo della storia. Il problema
interpretativo non sta dunque nel capire perché questa penosa metafisica fu
prodotta, ma perché in cento anni non è stata sostanzialmente corretta, e nel
1989 è morta più o meno nella stessa forma in cui era stata concepita nel 1889,
e cioè un secolo prima. A questa domanda può soltanto rispondere un'analisi
storiografica condotta con il metodo della deduzione sociale delle categorie,
sia filosofico-scientifiche che soprattutto ideologiche. E qui la dossografia
alla Diogene Laerzio, e cioè la noiosa elencazione delle “opinioni” dei
marxisti autoproclamatisi tali (l'autoproclamazione è un criterio simile a
quella della autocertificazione di essere Napoleone da parte dei matti dei manicomi)
non fa che incrementare l'inutile distruzione degli alberi per farne carta, o
meglio cartaccia.
Il codice “marxista” socialdemocratico,
sublimazione evoluzionistico-deterministica di un blocco sociale europeo già
totalmente “neutralizzato” da ogni velleità rivoluzionaria dalla fusione
dell'economicizzazione del conflitto (Bauman) con la nazionalizzazione
imperialistica delle masse (Mosse), si estinse storicamente fra il 1914
(accettazione del grande macello imperialista da parte delle direzioni politiche
e sindacali e dei loro miserabili intellettuali “organici”) ed il 1917 (servile
scomunica della rivoluzione russa del 1917). La sua estinzione storica non
coincide però con l'estinzione ideologica, che si ripresenta nella storia
continuamente (ad esempio nell'ideologia storicistica del PCI fra il 1945 ed il
1989, vero esempio di kautskismo all'italiana insaporito con la vecchia
tradizione dell'ipocrisia e della doppiezza linguistica ereditata dalla
controriforma cattolica del cinquecento).
Il codice “comunista”, o più esattamente il codice
ideologico di legittimazione politica del comunismo novecentesco (1917-1991)
presenta sia elementi di continuità che elementi di discontinuità con il
precedente codice ideologico socialdemocratico. Si tratta appunto del
leninismo, che poi viene sistematizzato da Stalin fra il 1924 ed il 1926 in
“marxismo-leninismo”, formazione ideologica che comincia ad entrare in crisi
dopo il 1956 e la cosiddetta “destalinizzazione”. La destalinizzazione apre un
piano inclinato in cui il marxismo-leninismo non cesserà di precipitare fino
alla catastrofe del 1989. Criticato dall'esterno dalla tradizionale eresia
trotzkista (la quale era in realtà il frutto di un'ortodossia
secondinternazionalistica di estrema sinistra), viene contestato all'interno
del movimento comunista dal maoismo cinese, destinato nel corso di un ventennio
(1956-1976) a fallire sia in Cina che in Europa, anche se permane come
guerriglia rivoluzionaria di contadini poveri (India, Nepal, Perù, eccetera).
Il codice “comunista” continua a conservare
elementi socialdemocratici precedenti, primo fra tutti il determinismo
teleologico che “assicura” la vittoria finale del socialismo, mentre rompe con
il precedente codice socialdemocratico con la pratica della dittatura del
proletariato intesa come dispotismo sociale esclusivista di partito. Non si
trattò di un errore o di un fraintendimento nei confronti di Marx. Si trattò di
un adeguamento obbligatorio alla situazione storica di assoluta incapacità di
egemonia pacifica del proletariato sociale sulle classi medie vecchie e nuove,
incapacità egemonica che fu necessario “compensare” con misure di dispotismo
politico. Antonio Gramsci ebbe ragione nell'individuare nel concetto di
“egemonia” il cuore della questione, ma si illuse sul fatto che una classe
subalterna potesse diventare “egemonica”, sia pure attraverso la mediazione di
improbabili “moderni principi” e di ancora più improbabili “intellettuali
organici”.
Il materialismo dialettico sovietico fu la teologia
di una classe subalterna, per sua natura incapace di “autocoscienza
idealistica” (salvo ovviamente eccezioni, significative, ammirevoli e pur
sempre minoritarie). Da un lato, sacralizzò il processo storico nella forma
della successione deterministico-teleologica dei cinque stadi, successione
positivisticamente divinizzata, e quindi non “superiore” al culto di Padre Pio
o del sangue di San Gennaro. Dall'altro, restaurò con l'unificazione delle
leggi dialettiche della natura e della società il cuore del pensiero primitivo mondiale,
che era appunto basato sull'unità fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale.
Sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, una classe
subalterna non può che produrre un'immagine del mondo arretrata e subalterna.
I gruppi eretici marxisti minoritari elaborarono
tutti una “teologia di riferimento”, necessaria per il compattamento del gruppo
ed il mantenimento della loro ideologia identitaria di appartenenza politica
(anarchismo, comunismo dei consigli, bordighismo italiano, trotzkismi
internazionali e nazionali, maoismi europei, asiatici e latino-americani,
eccetera). La sostanziale sopravvivenza del trotzkismo, sempre marginale ma
anche sempre sopravvissuto, deve essere a mio avviso correlata al fatto che il
trotzkismo continua a funzionare come “coscienza infelice” dell'impossibilità
storica di applicare un'ortodossia marxiana che sembra inapplicabile, ma di cui
si nega pervicacemente l'inapplicabilità inserendo nella storia un “fattore
negativo” (la burocrazia, appunto), che gioca lo stesso ruolo giocato dal
demonio nelle teologie religiose. Ci si può allora contemporaneamente
dichiarare marxisti rivoluzionari ortodossi, da un lato, ed evocare l'elemento
diabolico-negativo della burocrazia, spiegandolo “razionalmente” con l'espediente
ideologico del cosiddetto “basso livello delle forze produttive”. Il paradigma
trotzkista rappresenta un luminoso esempio della teoria di Thomas Kuhn sulle
rivoluzioni scientifiche, sempre rimandate con la continua interpolazione di
“aggiuntead hoc” o di “eccezioni”. A tutt'oggi il codice ideologico
trotzkista continua ad essere un fattore attivo per rimandare e rendere
difficoltoso il necessario mutamento di paradigma teorico marxista.
In sintesi, tre sono i criteri principali per la
composizione di una (non ancora esistente, ma già abbozzata in alcuni lavori
pionieristici, fra cui includo anche alcuni miei) storia marxista dei marxismi:
(1)
Applicazione del metodo materialistico-genealogico della deduzione sociale
delle categorie allo specifico oggetto storico del pensiero di Marx e dei
marxisti successivi, indagati con il metodo dialettico-triadico di origine
hegeliana della genesi, dello sviluppo ed assestamento provvisorio ed infine
del tramonto e della dissoluzione.
(2)
Distinzione fra la scienza filosofica marxiana originaria e le sue necessaire
ricadute ideologiche. Le ricadute ideologiche, quindi, non devono essere
indagate in base alle false categorie di errore, fraintendimento, tradimento,
eccetera, ma in base all'appropriazione selettiva di temi originari sulla base
di interessi collettivi di identità.
(3)
Classificazione delle ricadute ideologiche sulla base dei destinatari sociali
differenziati cui queste ricadute ideologiche si rivolgono, direttamente o (più
spesso) indirettamente (con acclusa falsa coscienza necessaria di preteso ed
inesistente universalismo e di preteso ed inesistente statuto
scientifico. Fra i molti destinatari ne seleziono soltanto quattro:
( a ) Classe dei contadini poveri e medi. Il
messaggio marxista è percepito nei termini della riforma agraria radicale, o
come collettivizzazione integrale della terra, o come ripartizione egualitaria
(contadini poveri e braccianti), o come sostegno statale ai prezzi agricoli ed
all'agricoltura (contadini medi). In quanto ai contadini ricchi ed alle imprese
capitalistiche in agricoltura, il marxismo è un nemico meritevole di squadroni
della morte (America Latina).
( b ) Classe operaia, salariata e proletaria
dell'industria e dei servizi moderni capitalistici. Il messaggio marxista è
percepito nella forma dello statalismo assistenziale di “sinistra”
(altro che statalismo come fraintendimento del pensiero di Marx!), in cui gli
apaprati partitico-statuali devono garantire soprattutto i due parametri della
sicurezza del posto di lavoro contro la disoccupazione e dell'assistenzialismo
pensionistico, abitativo e medico generalizzato . Ciò non può che comportare
inevitabilmente ad un certo punto (dopo la fase dell'industrializzazione
primitiva forzata ed accelerata) stagnazione economica, ipertrofia delle
maestranze necessarie, pigrizia ed inefficienza diffusa di massa, parassitismo
burocratico, invidia sociale scambiata per nobile egualitarismo virtuoso,
ritardo nell'introduzione di tecnologie “risparmia-lavoro”, eccetera.
( c ) Classe alto-borghese, medio-borghese ed in
generale agenti sociali della riproduzione capitalistica. Il marxismo è inteso
come “aberrazione” di difficile comprensione (Gianni Agnelli), rivolta dei
poveracci e dei malriusciti pigri contro la meritocrazia (niccianesimo popolare
reazionario di tipo berlusconiano), parentesi aberrante del secolo ideologico
novecentesco, secolarizzazione delle vecchie escatologie religiose nel
linguaggio moderno dell'economia politica, apologie della società chiusa contro
la società aperta (vulgo: liberalcapitalistica), concretizzazione della
demcorazia totalitaria giacobino-russoviana, coronamento del pensiero utopico
mostruoso, eccetera. Parlo ovviamente della classe borghese post-1848 (Lukács),
priva ormai dei minimi residui religiosi-illuministici-romantici di coscienza
infelice. La protoborghesia è infatti parzialmente illuministico-romantica
(1789-1848), la “medioborghesia” 1848-1914 è positivistica e
protoesistenzialistica nella sua prima fase ed esistenzialistica nella sua
seconda fase (1914-1968 circa), ed infine postmoderna ed
individualistico-libertaria nella sua ultima fase tardoborghese (dopo il 1968
fino al 1989 circa).
( d ) Gruppo sociale degli intellettuali europei.
Il marxismo giunge a loro in una prima fase in una forma positivistica
(1875-1914 circa). In una seconda fase, sulla base esclusiva dei due shock delle due guerre mondiali 1914-18
e 1939-45, giunge a loro in una forma esistenzialistica o
paraesistenzialistica, come “risposta personalizzata” alla mancanza di senso
nella vita nel capitalismo. In una terza ed ultima fase (dopo il 1968 ed ancor
più dopo il 1977 ) il postmoderno rappresenta la via di dissoluzione della
precedente coscienza esistenzialistico-marxista. Il postmoderno sta alla
dissoluzione del mondo spirituale borghese-proletario (l'endiadi è necessaria,
in quanto i due termini camminano sempre insieme come i carabinieri di una
volta) come a suo tempo l'illuminismo lo è stato alla dissoluzione del mondo
spirituale religioso, tardofeudale e tardosignorile. Ma su questo punto mi
soffermerò maggiormente nel sesto paragrafo.
E' invece necessario ribadire la necessità di
effettuare un'analisi ideologica differenziata di questi quattro gruppi di
“destinatari” e/o di “committenti”. Una volta fatta metodologicamente questa
analisi ideologica differenziata bisognerà poi fare un'analisi geografica
differenziata, perché le culture europee, americana, latino-americana,
medio-orientale, indiana, africana, cinese, eccetera, hanno a loro volta avuto
codici diversissimi nella ricezione del marxismo. Si tratta infatti di diverse
“inculturazioni”, per usare il concetto utilizzato dai sociologi della
religione, e di quella cattolica in particolare. Gli “strati culturali”
sottostanti di tipo cristiano (cattolico,protestante ed ortodosso), ebraico,
musulmano, induista, buddista, confuciano, eccetera, hanno sviluppato profili
marxisti diversissimi, ed in alcuni casi quasi incommensurabili.
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5. Un'interpretazione della dinamica
complessiva di sviluppo del comunismo storico novecentesco realmente esistito
(1917-1991).
Occupata Napoli nel 1943, i militari americani
commissionarono a don Benedetto Croce un articolo di giornale che spiegasse al
lettore statunitense il perché di una cosa così strana come il “fascismo” nella
terra del sole, degli spaghetti e dei mandolini. Nonostante le sue frasi vuote
sul marxismo come canone storiografico, don Benedetto Croce non aveva la minima
idea di come applicare al fascismo questo canone storiografico, ed allora
ripiegò sulla teoria “parentetica” del fascismo. In sostanza, il fascismo era
stata una “parentesi” patologica nella grande storia del liberalismo, una
parentesi patologica aperta nella prima guerra mondiale e felicemente chiusa
con l'arrivo dell'esercito USA in questa seconda. Quand'ero giovane (anni
sessanta e settanta del novecento) la tautologica non-spiegazione del complesso
fenomeno del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), che
pure è stato uno dei fenomeni storici complessivi più importanti
dell'intera storia dell'umanità dalle piramidi egizie ad oggi. Il comunismo
sarebbe stato un'incresciosa parentesi utopico-totalitaria ed
ideologico-dispotica della grande storia universale della libertà, libertà a
sua volta identificata con un grande centro commerciale globalizzato
(Badiale-Bontempelli). A questo trionfo della Pantautologia (come direbbe
Ignazio Silone) concorre la sinergia dei vecchi critici (la tradizione dell'anticomunismo
liberale borghese da Hayek a Popper) e dei nuovi critici (i rinnegati sessantottini che
devono avvelenare il pozzo in cui avevano bevuto nella loro stralunata gioventù
in modo che nessuno più possa berci per l'eternità, eternità scambiata da loro
per il restante della loro miserabile e fallita vita terrena). L'addizione di
vecchi critici e di nuovi critici non caratterizza così la conoscenza del
fenomeno globale del comunismo storico novecentesco, ma la sua esorcizzazione e
demonizzazione “parentetica”. Credo che tutto questo (scrivo nel 2007) dovrebbe
durare ancora alcuni decenni, vista la forte integrazione ideologica sinergica
fra le tre componenti del ceto politico specializzato della governance post-democratica, del circo
mediatico televisivo e giornalistico integralmente americano-sionista e della
classe universitario-accademica globalizzata in base a codici ispirati alla
variante politicamente-corretta del pensiero unico neoliberale.
E invece il marxismo resta sempre la chiave per
comprendere questo maestoso fenomeno storico. Purché, appunto, non si creda che
il marxismo si trovi nelle forme ideologiche di autolegittimazione politica di
questo fenomeno (tanto varrebbe studiare l'antico Egitto sulla base dei papiri
segreti dei sacerdoti del Dio Sole Râ). Il metodo di Marx si trova fuori dal
mondo stregato ed autoreferenziale di queste operazioni ideologiche, e si trova
appunto nelle categorie politiche, economiche, sociali e culturali che devono
essere applicate creativamente e spregiudicatamente a questo fenomeno, così
come Marx applicava le sue al capitalismo inglese dell'ottocento. Con questo,
non sono così presuntuoso da dichiarare che il modo in cui personalmente
applico queste categorie è già quello giusto. Non lo penso nemmeno nel mio foro
interiore. Sono invece ragionevolmente sicuro che questo sia almeno l'approccio
giusto, anche se fortemente correggibile nei prossimi anni. Questo mio
approccio è lontanissimo sia dalle interpretazioni demoniaco-parentetiche
(totalitarismo, utopia, follia ideologica oggi quasi incomprensibile), sia
dalle colpevolizzazioni nominative dei tiranni (Stalin, Mao, Pol Pot, e via
evocando Dracula e Nerone), sia dal pentimento neoliberale (se vogliamo la
libertà, non possiamo e non dobbiamo negare la proprietà privata dei mezzi di
produzione), sia infine dalle versioni di tipo minoritario-eretico-gruppettaro
(spiegazioni anarchiche, anarco-comuniste, comuniste dei consigli
Korsch-Pannekoek, bordighiste italo-francesi Bordiga-Dangeville, trotzkiste
Trotzky-Mandel, maoiste occidentali Bettelheim, neostaliniste
Martens-losurdo-Catone, eccetera). Questo quadrifoglio ideologico
demoniaco-parentetico, colpevolizzatore nominativo dei tiranni sanguinari,
pentitistico-neoliberale ed infine gruppettaro-identitario deve essere tenuto
presente, ma solo come altera pars negativa da cui tenersi il più possibile
lontani.
Bisogna partire da due vere e proprie ovvietà, in
quanto – come scrisse Hegel – il noto in quanto “noto” non per questo è
“conosciuto “. In primo luogo, la rivoluzione comunista russa del 1917non
avrebbe mai e poi mai potuto scoppiare senza la “finestra d'opportunità”
concessale dalla prima guerra mondiale, e cioè non da uno scontro
fra borghesi e proletari (secondo il modello originario di Marx),
ma da uno scontro totalmente interno al mondo della borghesia capitalistica. In
secondo luogo, la rivoluzione comunista russa del 1917 non avrebbe mai e poi
mai potuto assestarsi e durare senza la direzione del partito bolscevico di
Lenin, ed i pure robustissimi movimenti “spontanei” sarebbero inesorabilmente
rifluiti senza la funzione di direzione bolscevica.
Questi due “fatti” danno luogo ad uno “scenario”
del tutto incompatibile con il codice “marxista” del tempo, e l'ortodosso
Kautskyfu il primo a notarlo. Eppure è necessario qui scegliere fra la lettera
di Marx ed il suo spirito rivoluzionario e comunista. La “lettera marxiana”
delegittima la rivoluzione russa del 1917, lo “spirito rivoluzionario
marxiano”invece la legittima. E' questa la freudiana “scena primaria” del
comunismo.
Il comunismo come fenomeno mondiale nasce nel 1919
con la fondazione della Terza Internazionale, e nasce sulla base di una
diagnosi (crisi finale del capitalismo) e di una prognosi (apertura di un
periodo di imminenti rivoluzioni anticapitalistiche nelle metropoli
imperialistiche) del tutto errate. E nno solo parzialmente errate, ma completamente
errate. Corretta era invece l'analisi del congresso di Baku del 1920, per cui
le rivoluzioni coloniali avrebbero potuto assumere un carattere socialista e
comunista. E quindi Mosca 1919 fu smentita clamorosamente, mentre Baku 1920 fu
in buona parte confermata. E' questo il punto storico e teorico da cui è
necessario partire se vogliamo cominciare a capirci qualcosa del
problema-comunismo. In sintesi: non è possibile essere anticapitalisti se non
si è anti-imperialisti, ed è impossibile essere “comunisti” se non si è
entrambi.
Lenin muore nel 1924, ed il periodo storico che va
dal 1924 al 1953-1956 (morte fisica di Stalin e destalinizzazione ufficiale del
XX congresso del PCUS) coincide con il cosiddetto “stalinismo”. In proposito, a
proposito di Stalin per brevità elencherò soltanto tre posizioni, la
demonizzatrice oggi dominante, la critico-trozkista ed infine la
giustificazionistica-contestualzizatrice:
(1)
Sulla posizione demonizzatrice ho già avuto modo di soffermarmi. Stalin diventa
Koba il Terribile, il georgiano crudele e impazzito, il simbolo del delirio
ideologico del novecento da mettere subito dopo Hitler, che resta comunque il
Demone Primario per il fatto che si è messo contro gli ebrei. Questa posizione,
che si basa sulla sinergia fra vecchi critici e nuovi critici, corrisponde
pienamente alla lettera ed allo spirito della storiografia postmoderna, in
quanto il postmoderno utilizza insieme la stroncatura critica delle cosiddette
“grandi-narrazioni” e la riproposizione di un apparato magico-simbolico di
esaltazione angelica e di esorcizzazione demoniaca.
(2)
La posizione critico-trotzkista (unita anche ad una sorta di maoismo europeo
trotzkisteggiante degli anni 1966-76) considera Stalin l'uomo del Termidoro
Sovietico, il papa dei burocrati, e quindi il portaparola degli interessi
storico-economici di un gruppo particolare, la burocrazia comunista, spiegabile
“materialisticamente” con l'accerchiamento capitalistico ed il basso livello
delle forze produttive. Se poi questa burocrazia debba essere considerata un
semplice ceto o gruppo sociale (variante trotzkista classica) o una vera e
propria classe sociale in senso marxiano (variante del maoismo occidentale
1966-76 o variante della scuola trotzkista del cosiddetto “capitalismo di
stato”), possiamo per ora metterlo da parte, in quanto queste varianti sono pur
sempre all'interno di questa seconda posizione.
(3)
La posizione giustificazionistica è disposta a prendere anche in considerazione
gli errori ed i crimini di Stalin (anche se il vero e proprio
giustificazionismo estremistico – Ludo Martens – non consente neppure su
questo), ma li colloca in un contesto storico “obbligato” che ne spiega e di
fatto ne avalla i comportamenti politici fondamentali. Il mio approccio
all'intera questione di Stalin è tuttavia originale, e non si basa su nessuna
di queste tre posizioni, anche se la loro conoscenza è certamente utile per
chiarire molte questioni storiografiche. Nessuna delle tre, a mio avviso, può
essere ricondotta al metodo d'indagine di Marx.
Personalmente, considero insensato ed
ideologico-religioso il chiedersi se Stalin abbia “tradito” o viceversa abbia
“proseguito” Lenin nelle nuove condizioni storiche. Stalin deve essere
considerato iuxta propria principia, e secondo criteri a lui propri,
e non certo sulla base di una presunta “vicinanza” o “lontananza” da Marx,
Engels o Lenin. Le diagnosi e le prognosi dei comunisti del periodo 1917-1924
essendo completamente sbagliate, non ha alcun senso fare il gioco infantile
della vicinanza e/o lontananza.
Stalin restò fedele alla base sociale operaia e dei
contadini poveri. E tuttavia, proprio perché voleva restarne soggettivamente
fedele, era costretto per garantirne stabilmente l'egemonia a costruire un
gigantesco apparato partitico e statuale interamente dispotico. In poche parole,
a costruire un dispotismo sociale. Questo dispotismo sociale non poteva
funzionare senza un apparato privilegiato, che potremmo anche chiamare
“burocrazia” oppure maoisticamente “borghesia di stato” (Cliff, Natoli) o
“borghesia di partito” (Bettelheim), purché non si cada nell'errore-idiozia di
credere veramente che una stabile egemonia delle classi degli operai e dei
contadini poveri avrebbe potuto essere stabilmente garantita senza apparati
separati partitico-statuali con la semplice gioiosa anarchica autogestione
economica e con il semplice armonico e virtuoso autogoverno politico delle
mitiche “masse” consiliari. Sulla base del testo di Lenin Stato e Rivoluzione non si può governare stabilmente
neppure una comunità montana di pastori, ma si può al massimo destrutturare un
apparato repressivo.
Riconoscere a Stalin di avere effettivamente
garantito un'egemonia operaia e proletaria non significa ovviamente
“giustificare” i crimini di cui si è reso responsabile, dal ciclo di processi
1936-39 alla fucilazione di migliaia ufficiali polacchi a Katyn, eccetera. Devo
dire che nel contesto della “macelleria generalizzata” 1936-1946 (Auschwitz,
Hiroshima, Dresda, eccetera) non riesco ad indignarmi soggettivamente contro il
solo Stalin, anche se questa mia soggettiva percezione non è ovviamente un
parametro storiografico serio. Considero invece le “eresie salvatrici” (e
salvatrici perché intendono “salvare” virtuosamente il messaggio
marxista dal fango e dal sangue della storia) di tipo bordighista, trotzkista,
maoista, operaista, eccetera semplici espressioni della Religione dello
Struzzo, l'animale totemico che di fronte a qualcosa di minaccioso e sgradevole
mette la testa sotto la sabbia. Ma ciò che consento volentieri allo struzzo non
lo consento all'uomo in quanto homo sapiens, e quindi razionale.
Poniamoci allora il “dubbio iperbolico”: ha
costruito Stalin una “società socialista”, sia pure ovviamente imperfetta ed
assediata? Dipende da cosa intendiamo ovviamente con il termine di
“socialismo”. Nel senso di Marx certamente no, perché per Marx il socialismo
era concepito come qualcosa che conciliava la dittatura del proletariato con la
democrazia politica, la libertà di espressione filosofica, artistica e
letteraria (su questo punto Marx era pienamente “illuminista”), il rifiuto
integrale dello statalismo, l'autogoverno e l'autogestione, eccetera. Ma il
fatto che lo stalinismo non corrisponda al socialismo secondo Marx non
significa nulla, perché Marx intendeva il socialismo come esito di una crisi
catastrofica del capitalismo, di un grande sviluppo delle forze produttive ed
infine della formazione di un lavoratore cooperativo collettivo associato, dal
direttore di fabbrica all'ultimo manovale. Nelle condizioni novecentesche date
tendo invece a pensare che Stalin abbia veramente costruito il “socialismo”,
nel senso che data la pittoresca ed incurabile incapacità egemonica delle
classi subalterne (operai, contadini poveri ed intellettuali miserabili servi
del potere) il solo modo di garantire l'egemonia era il dispotismo sociale di
partito. Al principio marxiano “proletari di tutto il mondo unitevi” Stalin
sostituì il principio “non si può fare la frittata senza rompere le uova”.
Ma valeva allora la pena di fare questa frittata,
se è vero che la stessa “crudeltà criminale” di Stalin è stata anche una
gigantesca forza produttiva nel senso di Marx? A questa domanda iperbolica non
è possibile dare una risposta univoca, perché la risposta dipenderà sempre
dalla filosofia della storia implicita da cui partiamo. Do dunque una risposta
dichiaratamente solo personale. Per me sì, ne valeva la pena, e non certo solo
per “battere il nazismo” (che gli USA avrebbero battuto lo stesso, magari nel
1947 e non nel 1945) o per “appoggiare le rivoluzioni anticoloniali” (che si
sarebbero sviluppate lo stesso, magari con qualche decennio di ritardo), quanto
proprio la mia personale filosofia della storia, che rivendico pienamente
contro il fatalismo postmoderno e l'apologia della fine capitalistica della
storia, mi spinge a dire che è comunque giusto provare a sostituire il modo di
produzione capitalistico. La “criminalità” di Stalin, che non mi sogno affatto
di negare (come non nego le criminalità di Giulio Cesare e di Carlo Magno), ha
avuto come causa l'insufficienza soggettiva strategica della sua penosissima e
subalterna base sociale, che nello stesso tempo, senza smettere di essere
subalterna ha comunque il diritto “naturale” assoluto di ribellarsi contro i
suoi sfruttatori.
Il sistema di Stalin era quindi “socialista” (non
nel senso di Marx, ovviamente, ma nel senso di dispotismo sociale di partito
fondato sugli interessi delle classi subalterne), ma non poteva in alcun modo
evolvere verso il fantomatico “comunismo”. Sono note le definizioni di
“comunismo” in Marx (movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti,
estinzione della legge del valore-lavoro, da ciascuno secondo le sue capacità a
ciascuno secondo i suoi bisogni, deperimento dello stato, della famiglia e
della stessa società civile, eccetera). Colgo l'occasione per dire subito che
gran parte di queste connotazioni fanno parte di una sorta di “utopia
trasparenzialistica” che considero impraticabile ed inapplicabile, e che quindi
non condivido neppure come lontano orizzonte utopico indeterminabile di tipo
kantiano (su questo punto, e non solo su questo punto, la mia preferenza per
Hegel contro Kant è la preferenza del determinato contro l'indeterminato, i
concetti-limite, eccetera).
Dopo la morte di Stalin (1953) e la
destalinizzazione (1956) il sistema entrò in una dinamica autodistruttiva
irreversibile. Krusciov (1956-1964) stabilizzò il miserabile potere degli
apparati del partito-stato, alleggerendoli della minaccia poliziesca
staliniana. Questi apparati di potere in URSS erano provenienti in buona parte
dalla leva plebea degli assassini 1936-39. I figli di questa generazione di
criminali cominciarono a distaccarsi dall'ideologia comunista negli anni
cinquanta e sessanta, ed a partire dagli anni settanta cominciarono ad adottare
il punto di vista dell'americanismo, e cioè non certo del capitalismo moderato
socialdemocratico di tipo scandinavo, ma del capitalismo integrale ed assoluto
USA. Il periodo di Breznev (1964-1982) non deve essere assolutamente connotato
come quello della “stagnazione” (mai fidarsi del linguaggio manipolato della
sovietologia capitalistica!), ma come un periodo di “equilibrio paralizzante”,
in cui le classi subalterne non sono più in grado di esercitare la loro
egemonia e le nuove classi “borghesi” di stato e di partito non sono ancora in grado di portare a termine il
loro progetto complessivo di controrivoluzione capitalistica di massa.
L'equilibrio paralizzante si scioglie nel periodo
1985-1992, in cui l'ubriacone Eltsin e il pubblicitario (Pizza Hut, Vuitton,
eccetera) Gorbaciov, che rappresentano due settori distinti della
controrivoluzione sociale di massa (Eltsin i futuri oligarchi sionisti
assassini e Gorbaciov i ceti medi di stato e di partito che avrebbero forse
preferito una transizione più “dolce” al capitalismo integrale ed assoluto),
portano a termine il suicidio (a mio avviso definitivo) dell'esperimento
socialista di tipo sovietico-staliniano.
Dei paesi dell'Est europeo non parlo, non perché
non siano interessanti e differenziati l'uno dall'altro, ma perché si trattava
di territori militarmente occupati dall'URSS, ed i servi non hanno storia
autonoma se non quando si ribellano. D'altra parte, la dissoluzione di due
paesi che pure non erano militarmente occupati dall'URSS (Jugoslavia ed
Albania) dimostra che il “socialismo reale” era un blocco unico ed
indivisibile, perché era un “fatto sociale totale” (Durkheim).
In quanto alla Cina, a fianco del marxismo
sinizzato di Mao bisogna prendere in considerazione la tradizione
imperiale-confuciana, che non ha praticamente alcun rapporto con la “sinistra”
europea (aggiungo io: per sua fortuna!).
Il crollo del “campo socialista” è stato a mio
avviso una terribile tragedia di tipo geopolitico, perché ha dato il semaforo
verde all'impero USA. La mia opinione (pur stimando nell'essenziale anche
Solzenitsin, di cui apprezzo soprattutto la sostanziale estraneità slavofila al
capitalismo occidentale ed il sacrosanto appoggio ad uno stato “forte”
russo, purtroppo per il momento non ancora abbastanza forte!) è che abbia
ragione l'ex-dissidente russo Zinoviev: il sistema sovietico poteva (ed era)
sembrare assurdo (le cime abissali), ma era comunque il male minore sia sul
piano interno che sul piano internazionale.
Ed ecco in breve la mia opinione: il sistema
sovietico non andava certamente bene, non corrispondeva minimamente alla
lettera ed allo spirito di Marx (e non era quindi “marxista”), era una forma di
dispotismo sociale di partito e causa della pittoresca ed incurabile
subalternità storico-strategica delle classi subalterne, ma restava il “male
minore” sia all'interno che soprattutto sul piano geopolitico.
Il crollo geopolitico di questo “male minore” ha
inaugurato l'epoca nuova che si è aperta nel mondo dopo il triennio 1989-91.
Questa epoca nuova deve essere considerata sulla base dell'applicazione
di categorie nuove. Questo non viene ancora fatto, a causa del terribile potere
manipolatorio inerziale degli apparati ideologici di dominio. Ma questo non
potrà durare per sempre.
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6. Un'interpretazione della natura
globale del “capitalismo assoluto”, psotborghese e postproletario, che
caratterizza l'attuale momento storico.
Per partire metodologicamente con il piede giusto,
e non cadere immediatamente in incresciose confusioni, bisogna subito
distinguere fra il concetto di Modo di Produzione Capitalistico (MPC) secondo
Marx, ed il concetto di Società Capitalistica Globalizzata (SCG)., così come
sta oggi delineandosi nel mondo. Questi due concetti danno luogo a “campi
epistemologici” distinti, anche se incrociati.
Il Modo di Produzione Capitalistico (MPC) secondo
Marx è un concetto astratto che non corrisponde a nessuna società capitalistica
concreta, neppure a quella inglese ottocentesca, come ritengono e ripetono
spesso i confusionari. Come dice giustamente Gianfranco La Grassa, esso è
semplicemente uno “scheletro” di un corpo. Sostiene il corpo stesso, che
altrimenti cadrebbe e non potrebbe reggersi in piedi, ma non è in alcun modo un
“corpo” di carne e di sangue. Marx ha indubbiamente indagato il MPC in termini
di strutture anonime ed impersonali, quindi non antropomorfizzate (lezione di
Spinoza) e dialettiche (lezione di Hegel), ma non c'è dubbio che lo abbia
indagato presupponendone una dicotomia classistica (Borghesia e Proeltariato).
La Grassa ritiene che il modo migliore di connotare il MPC oggi sia di farlo in
termini di Formazione dei Funzionari del Capitale (FFC), ed in questa scelta
terminologica c'è certamente l'influenza (peraltro rivendicata) dello
strutturalismo della scuola di Althusser. Chiarisco allora subito la mia
personale posizione in proposito.
Rifiutando radicalmente l'equazione di filosofia ed
epistemologia, rifiutando il concetto di “scienza” applicata a quella di Marx,
che non è una scienza ma una scienza filosofica, rivendicando pienamente il
concetto di alienazione come filo conduttore di tutta l'opera di Marx e la sua
natura di integrale filosofia della storia di tipo umanistico, eccetera, è
evidente che respingo in toto l'interpretazione generale di Marx della scuola
Althusser-La Grassa, e non voglio lasciare dubbi in proposito sulla mia totale
estraneità a questa sorta di nichilismo positivistico (almeno, così
personalmente lo connoto). Ma questo rifiuto radicale non comporta che io non
consideri egualmente questa approssimazione concettuale (la ripeto: MPC=FCC)
come la migliore (o la meno peggiore) presente sul mercato del marxismo
contemporaneo, o meglio di ciò che ne resta.
Certo, è sempre possibile per ortodossia inerziale
veteromarxiana continuare a chiamare “borghesia” l'insieme di funzionari della
riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, e chiamare
“proletariato” l'insieme della forza-lavoro potenziale da assumere, da quella
stabile e meglio pagata a quella tenuta in condizioni semischiavistiche,
flessibili e precarie. E' possibile farlo, ma in questo modo si rifiuta di
considerare il MPC come un processo storico caratterizzato da salti
qualitativi, e lo si continua a pensare in modo antropomorfizzante come un
“teatro” di scontro fra due Soggetti complessivi, i borghesi ed i proletari.
Bisogna allora capirci. Se facciamo l'equazione
soprariportata (borghesi = agenti riproduttivi della formazione capitalistica;
proletari = insieme della forza-lavoro da scambiare con capitale), allora
queste due classi dureranno per i secoli dei secoli fino a che il MPC durerà.
Ma se consideriamo i concetti di Borghesia e di Proletariato come più ampi, in modo da non identificarli
economicisticamente con una semplice funzione economica di scambio, e li
inseriamo anche in un mondo storico, artistico, letterario, filosofico,
religioso, eccetera, allora scopriamo che la vecchia Borghesia ed il vecchio
Proletariato in senso proprio non esistono più, sostituiti da funzioni economiche collettive
globalizzate e sistemiche di tipo ormai postborghese e postproletario.
Naturalmente la società continua non solo a fondarsi su differenziali di
sapere, potere e denaro enormi, ma questi differenziali aumentano su scala
geografica. Semplicemente, la dicotomia Borghesia/Proletariato non è più adatta
ad interpretare la dinamica di approfondimento di questi differenziali.
Non si tratta soltanto del vecchio problema, già
molto discusso nella tradizione marxista, per cui il concetto di Classe resta
“muto” senza la correlata Coscienza di Classe, e il cosiddetto In Sé deve
diventare Per Sé , secondo una meccanica applicazione della terminologia di
Hegel al pensiero classista di Marx. Si tratta invece di sganciarsi
progressivamente da questo intero modo antropomorfizzante-dicotomico di
considerare l'intera questione. E questo comporta una vera “rivoluzione”
mentale, un veroriorientamento gestaltico che l'attuale comunità residua
dei marxisti non intende fare in alcun modo, per cui non ha senso
“aspettarla”. Per il momento, si noti bene, siamo ancora al livello astratto della
categoria di MPC, nno certo alla categoria di SCG, che è peraltro quella che mi
interessa teoricamente e praticamente di più.
Ma facciamo le cose con ordine. E per fare le cose
con ordine, bisogna trovare l'elemento comune (traît d'union) fra le due
categorie di Modo di Produzione Capitalistico (MPC)e di Società Capitalistica
Globalizzata (SCG). E questo elemento comune è il concetto “semplice” (Begriff)
di Capitale. In estrema approssimazione si possono enucleare storicamente e
teoricamente due distinti ed incompatibili concetti “moderni” di Capitale.
Il primo concetto di Capitale, che caratterizza
l'intera storia dell'economia politica dal settecento ad oggi, lo connota come
“fattore produttivo originario”(FPO), insieme con altri due fattori produttivi
originari che sono il lavoro e le risorse naturali (agricoltura, pesca,
miniere, eccetera). Si tratta della concezione dei “classici” (Smith, Ricardo,
eccetera), che poi evolve storicamente in “fattore scarso per usi alternativi”
(economia marginalistica) fino ad arrivare a “vettore di innovazione
tecnologica e di distruzione creatrice” (Schumpeter e schumpeteriani vari). I
presupposti filosofici di questa concezione, che a mio avviso non ha nulla a che vedere con la corrente
Hegel-Marx, stanno nell'empirismo di Locke (la pluralità del reale non è
mediata concettualmente da un'idea unificante) e nel criticismo di Kant
(separazione fra conoscenza teorica e scelte morali e negazione della
possibilità di concettualizzare una totalità).
Il secondo concetto di Capitale, che caratterizza
l'approccio di Marx in quanto allievo filosofico di Hegel, lo connota come
Totalità Assoluta, o se si vuole come Totalità o meglio come Assoluto. Assoluto
significa privo (o progressivamente privato) di limitazioni interne disomogenee,
e significa anche totalità che progressivamente supera dialetticamente le
limitazioni al suo concetto, limitazioni prima esterne e poi interne (nel
linguaggio di Marx, passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione
reale). Il concetto di Capitale in Marx è quindi un concetto idealistico
nella sua più profonda essenza, cosa che cominciano a capire persino gli
anglosassoni di tradizione empirista (Chris Arthur), ma che negheranno
sempre gli anti-hegeliani (kautskiani, bersteiniani, neokantiani vari,
dellavolpiani, althusseriani, eccetera), che a mio avviso è ormai inutile
“inseguire”, ma che bisogna lasciare al loro destino (liquidazione collettiana,
materialismo aleatorio, approdo alla critica postmoderna delle grandi
narrazioni, eccetera).
Sulla base sicura di questo secondo concetto di
Capitale, è possibile tentare una periodizzazione marxiana del capitalismo, nel
doppio aspetto interconnesso di MPC e SCG. E dal momento che la dialettica non
è forse “triadica” per sua essenza, ma la forma triadica è quella più nota e
collaudata nella storia della filosofia occidentale (Hegel e poi Marx della
successione dipendenza personale/indipendenza personale ed infine libera
individualità), l'insieme di MPC e SCG può essere periodizzato in tre momenti
successivi, avendo come criterio orientativo la progressiva assimilazione da
parte dell'Assoluto-Capitale delle sue limitazioni precedenti, prima esterne e
poi in un secondo momento interne. Da notare che la successione è logica, e
soltanto logica, perché storicamente abbiamo sempre forme di compresenza di
tutte e tre le forme:
(1) Fase di concretizzazione
dell'Assoluto-Capitale con limitazioni esterne. In questa fase il rapporto
concettualmente puro di Capitale deve fare i conti con le ancora robuste forme
di produzione precapitalistiche, asiatiche, schiavistiche, feudali,
signorili e soprattutto primitivo-comunitarie, caratterizzate dalla proprietà
comune delle risorse naturali. Al vettore economico della proletarizzazione dei
servi e degli artigiani ed al vettore politico del colonialismo all'esterno e
all'assoggettamento delle classi signorili all'interno si accompagna il vettore
ideologico dell'assoggettamento simbolico dello spazio (materialismo
scientifico unificato) e del tempo (ideologia del progresso e della sua
inevitabilità).
(2) Fase di concretizzazione
dell'Assoluto-Capitale con limitazioni interne. In questa fase, che viene
logicamente dopo la prima mentre storicamente coesiste ancora largamente con
essa, le limitazioni esterne precapitalistiche sono già sostanzialmente
superate. Il concetto di Capitale resta del tutto unitario, ma nello stesso
tempo si “scinde” (scissione dialettica, che non è per nulla teleologica o
proveniente da una rottura originaria semplice – vedi fraintendimenti pittoreschi
di Colletti e di Althusser) in due poli antagonistici, la Borghesia ed il
Proletariato, poli sociologico-storici che elaborano differenti e contrastanti
visioni complessive del mondo, che si presentano simultaneamente (e cioè nello stesso momento)
come opposizioni reali dal punto di vista dell'Intelletto (Verstand) e
come contraddizioni dialettiche dal punto di vista della Ragione (Vernunft).
Questa
dicotomia storica Borghesia-Proletariato, lungi dall'essere coessenziale e
coestensiva dell'intero ciclo logico-storico del MPC, ne caratterizza soltanto
una fase temporanea, e cioè questa seconda fase (in Europa più o meno i due
secoli 1789-1989). Questa dicotomia indebolisce fortemente la realizzazione del
concetto di Capitale, in quanto finché dura non ci può essere ancora che una
“sottomissione formale” (e non ancora “reale”) del lavoro al capitale ed un
“dominio formale” del capitale sul lavoro, che si pensa come politicamente e
sindacalmente sfruttato ed “alienato”, e quindi cerca vie politiche alla
propria emancipazione collettiva (democrazia ottocentesca, socialdemocrazia
gradualistica tedesca e scandinava, laburismo inglese, populismo
latino-americano ed arabo, fascismo popolare europeo, ed infine ovviamente
comunismo storico novecentesco veramente esistito).
(3) Fase di completamento della
concretizzazione dell'Assoluto-Capitale con graduale superamento delle
limitazioni sia esterne che interne. La concretizzazione storica di
questa terza fase (che l'ideologia capitalistica tematizza come fine della
storia, esaurimento dell'utopia e consumazioni delle grandi narrazioni,
eccetera) si chiama oggi “globalizzazione”, e mira alla formazione di un mondo
liscio, unificato, interamente postborghese e postproletario (fine della
coscienza infelice universalistica borghese e fine del rivendicazionismo
economico collettivo proletario), un mondo caratterizzato da sempre crescenti
differenziali di sapere, potere e reddito, ma in cui alla dicotomia classistica
precedente (cui restano legati per inerzia e pigrizia concettuale i
paleomarxisti) si sostituisce un'unica piramide globalizzata mondiale che potremo
(provvisoriamente) definire di tipo oligarchico-castale, neofeudale e
neosignorile (ma le categorie sono del tutto provvisorie, in attesa di una
concettualizzazione migliore, che peraltro certamente verrà a scadenza non troppo
lontana, ma certamente non ancora nel corso della mia restante vita terrena).
A fianco di oligarchie finanziarie bianche, e
soprattutto ebraico-sioniste e protestanti, avremo ovviamente progressive
cooptazioni di oligarchie “diversamente colorate” (indiani, cinesi, arabi,
eccetera). Si pensi in proposito all'impero romano, che si è costituito
massacrando le oligarchie concorrenti celtiche, fenicie ed ellenistiche e poi
le ha progressivamente cooptate sotto l'ideologia della pax romana (è una costante che ogni impero
chiami la propria guerra “pace” e la guerra degli altri che resistono
“terrorismo”o “barbarie”). Questi processi di omogeneizzazione sono del tutto
strutturali, perché in questa terza fase del capitalismo, che diventa
finalmente assoluto nel senso di “corrispondente al suo concetto” (Begriffsmässig),
è necessario costituire una sorta di “unità astratta ed indifferenziata di
consumo”, e questa unità astratta e indifferenziata di consumo deve lasciarsi
alle spalle le differenziazioni precedenti.
Alla vecchia dicotomia ideologica di borghesia
(liberalismo) e di proletariato (laburismo, socialismo, comunismo) si deve
sostituire una nuova Ideologia Unica, il Politicamente Corretto, fatto gestire
da un nuovo clero postmoderno diviso in clero secolare (il circo mediatico-
giornalistico) ed in clero regolare (il professorato universitario globalizzato
ed unificato). Si deve tendere ad un nuovo Tipo Androgino Sessuale Unificato,
che vada al di là dell'obsoleta separazione fra Uomini e Donne (e su questo
lavora ideologicamente il femminismo occidentale postmatriarcale e
postpatriarcale e l'esaltazione della categoria dei gay e delle lesbiche). Si deve
tendere ad una sola lingua mondiale di comunicazione globalizzata (l'inglese
finanziario operazionale per le oligarchie e l'inglese maccheronico di
comunicazione elementare per i dominati). Si deve tendere ad un'unica Razza
Umana Meticciata, che superi gli obsoleti colori bianchi, gialli, neri, rossi,
eccetera, in cui la distinzione sia esclusivamente di potere d'acquisto. Si
deve tendere ad un'unica Forma Multiculturale, che si contrapponga
virtuosamente ai nazionalismi ed alle religioni. In altre parole, si deve
tendere alla concretizzazione di quella che ho definito la terza fase del
Concetto-Assoluto di Capitale.
Se questa analisi è anche solo parzialmente
plausibile, si pone ineludibilmente il problema di quale atteggiamento pratico
assumiamo di fronte ad essa. E credo allora che ci siano molte tipologie di
atteggiamenti, che possono però essere tutte riassunte in tre punti:
(1) Tipologia di adesione e di
adattamento positivo. Questa tipologia assume forme storiche,
sociologiche, geografiche, religiose e culturali diversissime, ed è totalmente diagonale fra laici e credenti, poveri e
ricchi, uomini e donne, ed è soprattutto diagonale fra Destra e Sinistra,
categorie un tempo storicamente efficaci, ed oggi del tutto obsolete, e
reimposte artificiosamente come protesi politologiche manipolate di simulazione
culturale del conflitto sociale, all'interno di un concetto di post-democrazia
come codice d'accesso politicamente corretto e non più come rappresentanza di
interessi collettivi di cui si riconosce l'antagonismo.
(2) Tipologia di adattamento passivo. Questa tipologia è di tipo
neoellenistico, in quanto cerca una vita buona , o almeno una vita sopportabile
all'ombra del potere. Il potere è riconosciuto come orribile ed inautentico
(Umberto Galimberti, eccetera), ma nello stesso tempo le resistenze ad esso
sono connotate come “ancora peggiori”(nazionalismo, religioni,
comunismo, eccetera), e si cerca allora una (a mio avviso impossibile e
necessariamente “filistea”) vita autentica all'ombra del potere. Questa
tipologia comporta ovviamente l'interiorizzazione psicologico-esistenziale
della sconfitta, ed è naturale che concepisca l'intero novecento come secolo
della follia produttivistica e dell'utopia sanguinaria.
(3) Tipologia della resistenza. Questa tipologia unifica tutte
le forme di resistenza consapevole al capitalismo assoluto di terzo tipo. Chi
vorrebbe una resistenza “pura”, senza musulmani, talebani, russi, cinesi,
iracheni, eccetera, ma semplicemente occidentalistico-progressistica, mente
agli altri ed a se stesso, ed è come se non volesse nessuna resistenza. Ma è
giunto il momento di passare agli ultimi due paragrafi di questa
autopresentazione. Io sono infatti un aderente alla tipologia dei “resistenti”.
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7. Breve esposizione delle mie
opinioni politiche e geopolitiche nell'attuale momento storico.
Il concetto del Politico comprende due elementi
essenziali interconnessi. Il suo lato positivo è l'associazione comunitaria per
l'autogestione e la l'autogoverno. Il suo lato negativo è la corretta
individuazione e connotazione degli avversari e dei nemici. Il Buonismo
Ipocrita, legato al Pecorismo Cerimoniale, consiste nel pensare che ci possa
essere soltanto il primo senza il secondo. Il Cinismo Elitario, legato al
Pessimismo Antropologico, consiste nel pensare che ci possa essere soltanto il
secondo senza il primo. Personalmente, cerco di unirli entrambi. Il comunismo
ed il comunitarismo fanno parte del primo elemento. L'antiamericanismo e
l'euroasiatismo fanno parte del secondo. Personalmente, oggi (2007) sostengo in
relativa solitudine (ma il tempo sarà galantuomo) una versione comunitarista
del comunismo ed una versione euroasiatica del nazionalitarismo, euroasiatismo
che personalmente concepisco in modo federale-nazionalitario e non invece
“imperiale” (Mutti, Graziani, eccetera).
Alla fine del precedente paragrafo ho distinto la
tipologia dei resistenti, cui mi sono idealmente iscritto, dalle sue tipologie
dei conniventi ideologici attivi e dei sopravviventi passivi all'ombra del
potere. Per la prima tipologia il capitalismo assoluto è il meglio, per la
seconda è il meno peggio. Nonostante la differenza filosofica fra le due
posizioni, l'effetto pratico-politico è del tutto analogo. Dire che Bush è il
meglio, oppure è il meno peggio rispetto ad Ahmadinejad è esattamente lo
stesso, anche se la seconda posizione è la più ipocrita, perché intende anche
“salvarsi l'anima”.
Fra i resistenti – sia ben chiaro – non metto assolutamente il cosiddetto
Movimento dei Movimenti Pacifista No Global, che il circo mediatico imperiale
presenta (non a caso!) come la seconda superpotenza mondiale, e trova anche
politicanti manipolatori che se ne inorgogliscono. Colloco costoro nella
casella del Pecorismo Cerimoniale, che organizza manifestazioni ostensive
belanti in cui si portano petizioni buonistiche ai potenti. Questo pecorismo
cerimoniale ha la funzione di neutralizzare una potenziale opposizione
giovanile (salviamo il Darfur! Abbasso i dittatori!), di selezionare una classe
politica buonista-pecoresca omogenea al sistema ed in alcuni casi addirittura
di avallare iniziative belliche di “intervento umanitario” (esportiamo la
democrazia! Garantiamo i diritti umani contro i nuovi Hitler ed i nuovi
Stalin!).
Fra i resistenti invece segnalo tre diverse
posizioni:
(1) Resistenti vetero-novecenteschi. Seguaci non certo di Marx, Lenin,
Trotzky, Mao, eccetera, ma del generale francese Maginot, costoro intendono
condurre l'attuale quarta guerra mondiale (prima guerra mondiale 1914-1918,
seconda guerra mondiale 1939-1945, terza guerra mondiale 1945-1989) sulla base
delle carte militari della seconda e della terza. Mentre siamo già giunti alla
terza fase dello sviluppo del concetto di Capitale, costoro si comportano come
se fossimo ancora dentro la seconda fase (proletari contro borghesi, fascisti
contro antifascisti, comunisti contro anticomunisti, eccetera). Come rissosi
galli nel pollaio, si distinguono in neostalinisti, neomaoisti, neotrotzkisti,
eccetera. Come dice un vecchio proverbio russo: non hanno dimenticato niente,
non hanno imparato niente. Se qualcuno gli indica la luna, guardano il colore
del dito di chi gliela indica.
(2) I resistenti
futuristico-demenziali. Essi sono ben rappresentati dalla coppia accademico-postmoderna
Antonio Negri - Michael Hardt. A differenza dei vetero-novecenteschi
trinariciuti o con la barbetta (stalinisti e trotzkisti rispettivamente), essi
almeno si rendono conto che ci troviamo vagamente nella terza fase dello
sviluppo capitalistico, e non più nella seconda (da cui correttamente good-bye socialism!). E tuttavia, con un triplo
salto mortale universitario-circense considerano il Capitalismo Assoluto
(definito Impero) la base potenziale per il salto nel Comunismo Assoluto, di
cui le Moltitudini sono l'aristotelico Intelletto Attivo. Sono ovviamente
contro le religioni, i popoli, le nazioni, e cioè tutti i fattori concreti che
oggi lottano contro la globalizzazione. Dietro le presunte (ed inesistenti)
Moltitudini ci stanno soltanto gli individui sradicati del politicamente
corretto postmoderno.
(3) I neoresistenti che individuano nell'impero
militare americano il nemico principale, quello contro cui appoggiare le
resistenze così come si manifestano qui ed ora. Dal momento che sono un
sostenitore di questo partito neoresistente, approfondirò ora alcuni suoi
aspetti problematici.
In primo luogo, non bisogna farsi spaventare dalle
prevedibili accuse e diffamazioni di “anti.-americanismo”. E' naturale che il
circo ideologico degli aderenti diretti o indiretti all'impero USA utilizzerà
questo appellativo diffamatorio. In realtà, non si è contro il popolo
americano, eccetera, ma esclusivamente contro il progetto di impero
geopolitico-militare USA, progetto che è sotto gli occhi di tutti e non è
certamente una invenzione malevola degli “anti-americani”. Non si è
anti-tedeschi perché si è anti-nazisti, o anti-russi perché si è
anti-stalinisti, eccetera.
In secondo luogo, bisogna prendere atto che la
dicotomia Destra/Sinistra, che pure è stata per quasi duecento anni (1789-1989)
un indicatore reale per classificare le diverse posizioni politiche, ormai non
lo è più, in quanto il solo indicatore reale ormai è il binomio
Adesione/Resistenza all'impero geopolitico-militare USA. Con questo non intendo
dire che tutto il variopinto mondo plurale delle posizioni culturali ed
ideologiche viene “succhiato” dentro questa sola opposizione geopolitica.
Intendo dire (con linguaggio althusseriano) che questa opposizione fondamentale
“surdetermina” le forme di esistenza di tutte le altre contraddizioni, in
quanto (con linguaggio maoista) questa contraddizione principale determina il
ruolo di tutte le altre contraddizioni secondarie all'interno dell'insieme
geografico e politico mondiale.
In terzo luogo, per potersi orientare teoricamente,
non bisogna confondere tre distinte determinazioni, e cioè il concetto di
capitalismo assoluto, il concetto di globalizzazione ed infine il concetto di
impero geopolitico-militare USA. Più esattamente:
(1)
Il concetto di capitalismo assoluto prima definito è un concetto di tipo
generale astratto, ed è pertanto prima logico e soltanto dopo storico (nel
senso ovviamente non della logica formale, ma della logica dialettica di Hegel,
di Marx ed anche di Lenin – vedi Quaderni Filosofici). Se però innestiamo questo
concetto logico all'interno della concreta storicità contemporanea, vediamo che
i piedi su cui cammina oggi il processo
del capitalismo assoluto non sono i piedi deterritorializzati dell'Impero
Negri-Hardt e neanche i piedi di una generica Borghesia Mondiale in lotta
contro il Proletariato Mondiale, ma sono i piedi geopolitico-militari
dell'impero americano, in quanto la sua specifica formazione economico-sociale,
per ragioni storiche (mancanza di feudalesimo precedente) ed ideologiche
(messianesimo veterotestamentario), è quella che più si avvicina al modello
astratto del capitalismo assoluto senza limitazioni e con sottomissione reale
integrale degli individui e dei gruppi sociali alla riproduzione capitalistica
assoluta.
(2)
Il concetto di globalizzazione non è affatto ovvio come sembra, ed infatti
molti gli preferiscono versioni aggiornate del concetto leniniano di
imperialismo, o meglio di concorrenza inter-imperialistica. Diciamo allora che
il neoliberismo rappresenta la forma dominante della concorrenza
inter-imperialistica per gli USA, così come era già stato per l'Inghiliterra al
tempo dei cosiddetti “costi comparati” di Ricardo. Nella misura in cui il
cosiddetto Movimento No Global, questa caricatura grottesca dell'opposizione di
sua maestà al neoliberismo, è contrario alle politiche protezionistiche ed alla
sovranità (sacrosanta) degli stati nazionali, è possibile capire che non è in
realtà affatto “no-global” come dichiara ipocritamente di essere. Non esiste
comunque alcuna “globalizzazione virtuosa” o “globalizzazione alternativa”,
eccetera. Nella misura in cui la globalizzazione promuove il capitalismo
assoluto, ed è indubbio che lo promuove, essa è cattiva senza altri aggettivi,
ed è pertanto un nemico strategico in quanto tale.
(3)
Il concetto di impero USA può essere in un primo tempo correlato analogicamente
ad esempi di imperi precedenti (impero romano, impero navale inglese,
eccetera). Da questi esempi analogici risulterà però la sua assoluta novità. Si
tratta infatti del primo impero che rivendica il dominio strategico e
geopolitico mondiale assoluto, dominio che non vuole soltanto basarsi sulla
“sottomissione formale” (impero romano, impero navale britannico, eccetera), ma
intende farlo su di una vera e propria “sottomissione reale” (unificazione ed
uniformazione degli stili di vita di tutto il pianeta in vista del
consolidamento di una piramide unificata mondiale di tipo ultracapitalistico,
postborghese, postproletario, ed anche neofeudale e neosignorile).
Chi coglie questo punto non si porrà lo stupido
problema della “identificazione culturale soggettiva” con i movimenti di
resistenza all'impero (dai talebani agli Hezbollah, da Hamas alla giunta
militare benemerita del Myanmar, eccetera). L'identificazione culturale
soggettiva di tipo sostitutivo e proiettivo era tipica della sinistra
sessantottina (identificazione con Che Guevara, con i vietnamiti, eccetera).
Questo approccio narcisistico deve necessariamente rovesciarsi nel suo
contrario, in quanto all'illusione soggettivamente identificatoria non può che
succedere il rovesciamento dialettico nella delusione della virtuosa presa di
distanza.
Il discorso sarebbe appena cominciato, ma credo che
sia già apparso chiaro il punto essenziale delle mie odierne posizioni
politiche.
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8. Breve esposizione delle mie
opinioni ideologico-culturali nell'attuale momento storico
La prima cosa da fare in un campo così delicato come
la cultura e l'ideologia consiste nel separarle in modo netto e senza equivoci.
E' certo che le formazioni ideologiche (che ho già connotato come inevitabili e
funzionali alla costituzione di soggettività collettive) si nutrono di ricadute
di fatti culturali precedenti, ma questa ricaduta è talmente indiretta e
derivata da poter essere di fatto trascurata.
Il fatto che poeti e scrittori come Pound, Céline,
Hamsun siano stati di “destra” e poeti come Pasolini, Brecht ed Eluard siano
stati di “sinistra” non conta nulla (capito? Non poco, assolutamente nulla!) per darne una valutazione
artistica. Questo vale ovviamente anche per la scultura e la pittura. Ed
inoltre, e questo deve essere sottolineato in modo particolarmente solenne, le
simpatie politiche di filosofi come Gentile, Heidegger, Lukács, Bloch, Adorno,
eccetera, non devono essere tenute in alcun conto per valutare la profondità
delle loro sintesi filosofiche. Un conto infatti è la genesi autobiografica e
psicologica di una creazione filosofica, in cui ovviamente la visione politica
personale è rilevante, ed un conto è il valore dell'oggettivazione filosofica
di pensiero cui sono giunti. Questo non vale solo per Platone, Aristotele,
Hegel, Bergson, eccetera. Vale anche e soprattutto per lo stesso Marx. Marx non
fu certamente “grande” per la sua passione egualitaria o per il suo
“schieramento” soggettivo a “sinistra”, eccetera, passioni e schieramenti
comuni a milioni di persone, geniali e/o coglione. Questo criterio di
appartenenza è quello della famosa raccolta di firme di intellettuali, con cui
la sinistra per più di un secolo coprì il proprio nichilismo filosofico ed il
proprio intimo disprezzo per il pensiero critico ed originale, suo nemico
primario, da uccidere o licenziare dove possibile, da ignorare, diffamare o
emarginare dove non era possibile passare a vie di fatto più “pratiche”, Marx
fu grande esclusivamenteper il mirabile sistema concettuale che seppe
creare.
Fatta questa doverosa precisazione, in questo
paragrafo conclusivo mi limiterò allora ai soli Profili Ideologici (PI). Essi
non sono “cultura”, arte, letteratura e filosofia, ma semplicemente “formazioni
ideologiche sovrastrutturali” all'interno del capitalismo assoluto globalizzato
a guida geopolitica-militare USA. Mi limiterò a segnalare in proposito lo
scenario ideologico generale così come in questo momento (2007) mi sembra di
poterlo sommariamente disegnare, partendo dal Politicamente Corretto
Multiculturale (PCM) di oggi.
A questo punto è però necessario aprire una
parentesi sul rapporto fra passato e presente e sull'uso simbolico ed analogico
del passato per orientarsi ideologicamente nel presente. Il passato è un
gigantesco deposito di ispirazione simbolica e di orientamento analogico, e
tuttavia è anche il luogo culturale in cui i morti gravano sulle spalle dei
viventi (Marx) e l'eccesso di memoria storica contribuisce a soffocare le
esigenze del presente (Nietzsche). E tuttavia Lutero agisce pensando
analogicamente a San Paolo e Robespierre agisce identificandosi con gli eroi di
Plutarco. In questi casi, però, gli eroi del passato sono dei puri exempla per agire nel presente storico in
cui si vive.
Le cose cambiano quando ci si continua ad orientare
nell'attuale quarta guerra mondiale con gli schemi ideologici che hanno presieduto
alla seconda (1939-1945) ed alla terza (1945-1989). In questo caso, la
dicotomia Fascismo/Antifascismo e la dicotomia Comunismo/Anticomunismo sono
come i morti che gravano sulle spalle dei viventi di cui parla Marx. E dal
momento che ho proposto di interpretare il presente sulla base della categoria
di Capitalismo Assoluto o Integrale, Postborghese e Postproletario, Piramidale
e Neosignorile, Plebeizzato in modo postmoderno e con la Democrazia ridotta a
Codice d'Accesso in cui il sacerdozio ipocrita dei Diritti Umani ha sostituito
la Rappresentanza degli Interessi (rappresentanza oggi diffamata con il nome di
corporativismo, populismo, eccetera), non ha senso (o meglio, ha senso come
protesi manipolativa per i dominanti) inchiodare la nostra rappresentazione
ideologica del mondo in cui viviamo alla fase precedente dello sviluppo capitalistico, la
fase in cui non era ancora stata portata a termine la deriva dalla
sottomissione formale (permanenza dei limiti esterni precapitalismo/capitalismo
e dei limiti interni borghesia/proletariato) alla sottomissione reale.
E qui torno al mio primo paragrafo, perché qui il
primo e l'ultimo paragrafo si incontrano. Il gruppo sociale degli intellettuali
è oggi pressoché inservibile, ed è anzi un fastidioso ostacolo, perché non solo
è lautamente pagato per riprodurre spettacolarmente i contenziosi della seconda
e della terza guerra mondiale, ma anche e soprattutto perché nella sua
stragrande maggioranza, salvo eccezioni limitate, non ha ancora capito che
siamo passati dalla seconda alla terza fase della dinamica del modo di
produzione capitalistico. Non solo non esistono oggi degli Spinoza, degli Hegel
e dei Marx, ma non esistono ancora neppure delle rappresentazioni sistematiche
utilizzabili della realtà presente. I morti gravano sulle spalle dei viventi, e
le pagine culturali dei giornali, così come i talk show “colti” televisivi, ne sono i
necrologi.
La Democrazia come Codice d'Accesso ed il
Politicamente Corretto come sua teologia di legittimazione sono gli elementi
ideologici da cui partire. Un sistema imperiale ha bisogno di un Principio di
Intervento (pensiamo alla Santa Alleanza dopo il 1815), e questo principio di
intervento si basa ovviamente in primo luogo sulla preponderante forza
militare, nella doppia forma del bombardamento aereo annientatore preventivo e
del successivo intervento sul terreno di carne da cannone (contractorssuperpagati,
truppe volontarie in modo da non suscitare le proteste plebee che sorgerebbero
in caso di invio di truppe di leva a massacrare i ribelli, eccetera). E
tuttavia questo elemento della Forza si accompagna sempre ad elementi
ideologici di giustificazione.
A chi devono essere rivolti questi elementi
ideologici giustificativi? Non certo alla plebe indifferenziata maggioritaria,
la cui parte maschile legge esclusivamente i giornali sportivi e la cui parte
femminile legge esclusivamente giornali di gossip. Ma lo sported il gossip coprono solo un ottanta per cento
del popolo riplebeizzato (il popolo, infatti, emerge dalla plebe nella prima
fase del capitalismo, domina nella seconda e viene progressivamente
riplebeizzato in modo postmoderno nella terza attuale). Resta un rimanente venti
per cento, la parte che il comico Benni ha chiamato Gente di una Certa Kual
Kultura (con due kappa). Sono costoro il destinatario della cosiddetta Opinione
Pubblica, anche se non sono certamente loro l'Opinione Pubblica. Nella terza
fase del capitalismo la cosiddetta opinione pubblica è composta esclusivamente dalle oligarchie finanziarie
neosignorili (l'un per cento della popolazione mondiale), che attraverso la
cosiddetta “opinione pubblica” controllano ideologicamente una nuova classe
globalizzata, la new global middle class, di cui il Politicamente
Corretto è il vettore ideologico di costituzione.
E perché lo è? Non è difficile cominciare a
capirlo. Il mondo liscio del capitalismo assoluto ed integrale, postborghese e
postproletario, neoimperiale e neosignorile, piramidale e stratificato, deve omogeneizzare tutti i differenti tipi umani
nell'unico modello del consumatore (correlato con il lavoratore precario,
flessibile e con i diritti sindacali ridotti al minimo), ma non più del
consumatore equalizzato e livellato del comunismo standardizzato (un solo
modello maoista di vestito, un solo modello sovietico di scarpe, eccetera), ma
del consumatore differenziato non più da contrastanti concezioni del mondo, ma
esclusivamente da differenti piramidali capacità di acquisto.
Il Politicamente Corretto segue la stessa strategia
omologatrice del defunto comunismo (il che facilita enormemente la
riconversione dei vecchi comunisti in nuovi politicamente corretti – la furia
omologatrice è la stessa), ed è per questo che prima “bonifica” ipocritamente
il linguaggio (operatori ecologici al posto di spazzini, diversamente vedenti
al posto di ciechi, eccetera), e poi cerca di costituire un Unico Sesso (omo ed
etero, con la normale sessualità riproduttiva umana ridefinita “etero”),
un'Unica Razza (meticciata, con sportivi, cantanti ed indossatrici come testimonial), un'Unica Lingua, un'Unica
Industria dei Divertimenti (concerto rock per i giovani e telenovela televisiva per anziani), un'unica
ipocrita Religione Olimpica, un'unica filosofia politica globalzizata
(democrazia come codice d'accesso e diritti umani da esportare con le armi), ed
infine un'unica cultura mondiale, il Multiculturalismo appunto. Mentre tutto
ciò è strutturale ed obbligatorio, esistono anche optionals per intellettuali e semicolti,
come l'immagine storica del novecento come incubo totalitario generalizzato
fasciocomunista o comufascista, l'annientamento della vecchia scuola umanistica
consegnata a bande incontrollate di pedagogisti postmoderni e di psicologi
invasivi. Ciò che però conta in questo fenomeno è che tutto si tiene, anche se bisogna evitare di
credere di poter “dedurre” anche i più casuali e contingenti particolari (si
pensi alla polemica di Hegel contro chi gli voleva far “dedurre” la penna del
professor Krug).
Di fronte a questo il solo atteggiamento culturale
possibile è quello della scissione assoluta, o per usare un termine
impiegato da Antonio Gramsci, dello spirito di scissione. Purtroppo lo spirito di
scissione è soltanto un dato psicologico-esistenziale preliminare, in quanto di
per sé non è ancora in grado di costituire un profilo reale di opposizione al
capitalismo assoluto ed integrale.
Soltanto un processo storico collettivo e
comunitario potrà portare a questo, non certamente alcune “anticipazioni
geniali” di un singolo. E qui posso finire con una confessione personale. Odio
le sparate presuntuose e megalomani, ma mi sono anche odiosi gli ipocriti
lamenti di falsa modestia. Ritengo infatti che l'insieme delle concezioni che
ho riassunto in questa autopresentazione sia molto più avanzata della
maggioranza delle concezioni dei miei coetanei, e che rappresenti un vero
“fronte avanzato” dell'analisi contemporanea. In tutta sincerità, ritengo che
per usare un linguaggio sportivo l'insieme delle mie concezioni sia di serie A.
E tuttavia questo non mi viene affatto riconosciuto nel mondo esterno, e non mi
accontento certo di spiegarlo con tautologie consolatorie come settarismo,
invidia, pigrizia, senso identitario di appartenenza, eccetera. Evidentemente,
o io mi sbaglio, e mi sbaglio di grosso (ma non lo penso proprio, ed anzi lo
escludo), oppure non ci sono ancora le condizioni storiche per l'accoglimento
di quanto sostengo. Nel frattempo, non potendo fare altro, metto il messaggio
in una bottiglia (informatica e stampata). Chi vivrà,
vedrà.
COSTANZO PREVE
A cura di Alessandro Monchietto
Ogni
approssimazione alla ricostruzione del pensiero di un autore è anche sempre
necessariamente una scelta di “ordine d’esposizione”di temi e di problemi.
Occupandosi del pensiero di Costanzo Preve, autore sconosciuto ai più ma di
indubbia originalità, si prova inevitabilmente un certo senso di straniamento.
L’immagine che si aveva di Marx sino a quel momento va in pezzi, e al suo posto
sopravviene una spiacevole sensazione di smarrimento, di disagio, e diciamolo,
anche un certo fastidio. “Ma chi si crederà mai di essere questo signore, che
in maniera quasi innocente stravolge opinioni consolidate e accettate dai più
grandi studiosi marxisti degli ultimi centocinquant’anni?”
La
maggior parte dei lettori (soprattutto tra coloro che hanno alle spalle anni di
onorata e sincera “militanza”) risponde con un’alzata di spalle, abbandona il
libro e si dedica a qualche ben più proficua occupazione.
Non è il
caso ovviamente dell’autore di questo breve saggio, che ha invece deciso di
dedicare la sua tesi di laurea proprio allo studio di questo singolare
filosofo.
Nel
tentativo di affievolire questo spaesamento, e di agevolare la lettura del
saggio, in questa introduzione ne esporrò brevemente il contenuto e la
struttura.
Inizierò
trattando il concetto di economia in Marx, ed in particolare la distinzione tra
economia politica classica, critica dell’economia politica ed economia politica
critica di “sinistra”. Saranno analizzate poi le conseguenze della scelta
marxiana di individuare nell’economia politica l’oggetto da criticare e
rovesciare, prima fra tutte la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica
della propria teoria. Affronteremo infine il delicato tema della
presenza/assenza di una teoria politica nel pensiero marxista, e delle sue
possibili cause.
Nel secondo
capitolo, mi dedicherò al problema della ricostruzione del profilo filosofico
originale di Marx. In questo capitolo verrà affrontato inizialmente il concetto
di scienza e quello di scienza filosofica; passeremo poi allo studio della
nozione di alienazione nel pensiero marxiano, con un breve excursus sul concetto di Gattungswesen e sull’influenza esercitata dal
pensiero di Aristotele; infine sarà dedicato un paragrafo all’analisi del
materialismo in Marx, e delle innovazioni proposte dal professor Preve a questo
riguardo.
Nel terzo
ed ultimo capitolo analizzeremo invece quelli che (per Preve) sono gli errori
più rilevanti presenti nel pensiero marxiano, ossia la tesi della capacità
rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria (rivelatasi
largamente inesistente), la concezione della borghesia come unica
classe-soggetto del capitalismo (dove, in realtà, il capitalismo si sviluppa
per via largamente impersonale), e infine l’ipotesi dell’incapacità del sistema
capitalista di sviluppare pienamente le forze produttive (dove in realtà si
esperisce quotidianamente la sua smisurata abilità proprio in questo, anche se
ciò avviene in un contesto di distruzione ecologica e antropologica).
Spero con
ciò di aver fatto cosa utile al lettore.
1.1 Ho deciso di iniziare questo
saggio soffermandomi brevemente sul concetto di economia in Marx, poiché spesso
da qui nascono i primi malintesi. Non è insolito infatti sentirsi dire che
Marx, dopo una prima fase giovanile in cui si era limitato a una critica di
tipo prettamente filosofico al modo di produzione capitalistico, avesse
saggiamente abbandonato questo instabile terreno per abbracciare la ben più
solida scienza economica, scelta che gli permise di elaborare la sua teoria
della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Non
intendo assolutamente negare un fatto indubitabile, ossia la scelta marxiana
(compiuta probabilmente a Manchester nell’estate 1845[1]) di individuare nell’economia
politica il terreno privilegiato di critica.Vorrei però sgombrare il campo da
possibili equivoci e definire con chiarezza i termini della nostra discussione.
Si è
spesso tentato infatti(soprattutto in un’ottica di mobilitazione
politico-elettorale) di vedere Marx come una sorta di “economista eretico”,
”economista di estrema sinistra”o meglio come un “economista dalla parte dei
salariati”. Costanzo Preve invece, riprendendo tesi già elaborate negli
anni settanta da Claudio Napoleoni, rileva come Marx in realtà non abbia mai
condiviso né l’oggetto né il metodo dell’economia politica, e che per questo la
sua critica dell’economia politica non sia affatto assimilabile a ciò che
Napoleoni chiama “economia politica critica” (da Ricardo a Keynes, da
Schumpeter a Sraffa).
Come
Preve afferma in un suo recente scritto, “la critica dell’economia politica di
Marx non è un’ ‘economia’ nel senso di
Smith e Ricardo, ma è una vera e propria ‘scienza filosofica’ nel senso di
Ficthe e di Hegel, in quanto interpella criticamente l’insieme olistico della società capitalistica, con
i suoi vari aspetti religioso, politico, sociologico, culturale, eccetera,
organicamente interconnessi”[2].
In questa
frase, troviamo già esposta la tesi per cui quella di Marx è una scienza filosofica (tesi che tratteremo ampiamente
nel prossimo capitolo); per il momento però vorrei soffermarmi sul concetto di
critica dell’economia politica e sulle conseguenze che da essa si possono
trarre.
Come si
può facilmente dedurre dalla breve citazione di cui sopra, Preve è convinto che
Marx, pubblicando nel 1867 il primo libro del Capitale, non intendeva affatto portare
un “contributo” di sinistra all’economia politica ma intendeva impostare una
critica complessiva della società capitalistica (di cui l’economia politica era
la nuova religione globale di legittimazione).
Mentre
quindi la critica dell’economia politica non è per nulla una “economia” in
senso proprio ma una teoria generale della società, l’economia politica
critica ha come oggetto specifico la distribuzione del
reddito fra i vari gruppi sociali, ed in questo contesto rappresenta gli
interessi della classe salariata.
Secondo
Preve, quindi, il centro della teoria marxiana non sta nel semplice
riconoscimento “del fatto dello sfruttamento” (Ausbeutung) che si
nasconde nello scambio fra forza-lavoro e capitale, ma si situa invece nella
connessione organica fra due piani, il piano filosofico della teoria
dell’alienazione ed il piano economico della teoria del valore. Come vedremo
più avanti, questa affermazione sarà ricca di conseguenze.
Preve
arricchisce questa sua tesi indagando in maniera inedita il rapporto
Aristotele-Marx. Come sappiamo Aristotele individua nel metron e nella lotta alla dismisura la
differenza radicale fra oikonomia (l’economia, e cioè la legge
riproduttiva della casa comune, il nomos dell’oikos), e chrematistiké (la crematistica, e cioè l’arte
di accumulare più ricchezze private possibili).
Per il
nostro autore Marx inizia dove Aristotele si era fermato. Marx infatti nota che
la produzione capitalistica è per natura illimitata, e lo afferma anche apertamente:
“Il movimento del capitale - egli scrive - è senza misura”[3]. L’economia politica fondata da
Adam Smith con la Ricchezza delle Nazioni del 1776 non è a rigore una
“economia” nel senso di Aristotele, ma una crematistica moderna, che pone il
principio dell’illimitatezza potenziale dell’accumulazione capitalistica non
come problema da indagare ma come ovvietà da constatare[4].
Come
possiamo stabilire facilmente, questa tesi ci segnala chiaramente come il
metodo e l’oggetto di Marx siano differenti e non coincidenti con quelli
dell’economia politica inaugurata appunto da Adam Smith.
1.2 La scelta di Marx di
individuare l’economia politica classica come il grande oggetto da criticare e
rovesciare, ma anche da privilegiare, non è però priva di conseguenze.
Come
viene dimostrato ampiamente da Preve nel primo capitolo di Marx inattuale[5], questa decisione comporta la rinuncia marxiana
alla fondazione filosofica della propria teoria, con la conseguente rinuncia ad
attribuire alla conoscenza filosofica uno spazio autonomo.
Il
filosofo torinese non critica questa scelta, cosciente del fatto che se Marx
non l’avesse compiuta il marxismo non sarebbe mai nato; ma ritiene sia stata
proprio questa decisione a inibire a Marx ed al marxismo successivo l’unico
rimedio capace di prevenire le inevitabili derive storicistiche, utopistiche ed
economicistiche. Secondo il nostro autore infatti chi riduce la filosofia a
sopravvivenza premoderna e precapitalistica oppure a sofisticata
secolarizzazione protoborghese della religione finisce con il negare alle sue
stesse produzioni teoriche lo spazio critico di autoriflessione.
“ In
estrema sintesi, solo la pratica costante ed esplicita della conoscenza filosofica
(il cui presupposto socratico non è solo quello di sapere di non sapere, ma è
quello di mettere in mezzo, es meson, il sapere di non sapere) può, o forse potrà, o
forse avrebbe potuto, evitare al marxismo di oscillare tra i due poli viziosi e
convergenti, opposti e complementari, antitetici e solidali, della
pseudo-scienza e della quasi-religione[6]. Lo statuto autentico della religione
e della scienza può essere indagato solo da un terzo, e cioè dalla filosofia.
[…] la
filosofia sarebbe invece utile, perché essa è appunto non l’arbitro, che dovrebbe decidere
chi ha ragione (questa è un’illusione che mi guardo bene dal sostenere), ma
appunto il terzo interlocutore, che socraticamente invita alla
razionalità dialogica. La razionalità dialogica non è possibile se non ci si
mette totalmente in discussione. Se al posto di
questa messa in discussione totale si invoca una sorta di “principio di
esenzione” (secondo la formulazione di un libro molto bello, anche se
pochissimo noto, di Edoardo Benvenuto), la religione e la scienza si avvitano
su se stesse e diventano incapaci di autoriflessione teorica e di
autocollocazione storica”[7].
Per Preve
la filosofia era proprio il tipo di conoscenza che, nella sua pratica socratica
di tipo dialogico, poteva essere(e non è stata) il solo luogo comunicativo in
cui criticare le pretese ideologiche dello storicismo, dell’economicismo e
dell’utopismo.
Come
viene ribadito in un altro scritto, “la funzione della filosofia può infatti
essere paragonata a quegli ingranaggi salvavita che segnalano l’emissione di
gas da un cattivo impianto di riscaldamento e la cui conoscenza può fare la
differenza tra la vita e la morte. Lo spazio della filosofia è infatti uno
spazio di controllo, autocontrollo, verifica e segnalazione di pericoli, ed il
metodo dialogico che la filosofia ha ereditato dal suo fondatore Socrate
permette ai vari soggetti politicamente attivi di diventare consapevoli della
propria prassi”[8].
Non
possiamo assolutamente criticare Marx per non aver previsto tutto questo,
poiché non c’è cosa più sterile della critica realizzata “col senno di poi”,
ma è indubbio che chi voglia riprendere seriamente un pensiero anticapitalista
debba inevitabilmente confrontarcisi.
1.3 Secondo il nostro filosofo
torinese, un’ulteriore conseguenza di questa decisione consiste nell’assenza di
una teoria marxiana dello stato. Riprendendo un tema molto discusso in Italia
nella seconda metà degli anni Settanta[9], Preve ne stravolge le coordinate
tradizionali, e rifacendosi agli studi di Pierre Rosanvallon[10] e di Bernard Chavance[11] descrive il progetto marxiano
come l’elaborazione di un comunismo utopico, frutto del rovesciamento dialettico del
precedente capitalismo utopico di A.Smith.
Iniziamo
con una citazione:
“Marx è
soprattutto colui che ha pensato il comunismo secondo la modalità che i
pensatori religiosi hanno chiamato ‘teologia negativa’, in cui la divinità non
è descritta con categorie ontologiche ricavate da un’estrapolazione dell’ente
umano generico, e cioè dell’uomo in generale, ma è ricavata per differenza
contrastiva assoluta da questo fondamento stesso. Nello stesso modo Marx ricava
il concetto di comunismo (che di conseguenza non definisce mai se non in modo
volutamente generico) da una teologia negativa del modo di produzione
capitalistico.
Questa è
la sua forza, ma anche ovviamente la sua debolezza.
[..] Il
comunismo di Marx è dunque un ‘rovesciamento dialettico’ dell’utilitarismo in
ciò che dovrebbe essere il suo contrario, ma che in realtà finisce per essere
il suo sdoppiamento replicato e la sua generalizzazione ‘collettivistica’ ”[12].
Abbiamo
qui i termini fondamentali per iniziare la nostra discussione.
Scegliendo
di criticare l’economia politica, Marx ne rimane in qualche modo preda, e come
l’ateo rimane vittima del pensiero teista, elaborando prove dell’inesistenza di
Dio al posto di prove dell’esistenza di Dio (Anselmo d’Aosta, Tommaso
d’Aquino,ecc.), così Marx pensa il comunismo come un semplice rovesciamento
del sistema
capitalistico.
Per fare
un esempio esplicativo si può pensare all’approccio marxiano alla teoria del
valore, che è di tipo appunto contrastivo: proprio perché il capitalismo si fonda sulla
teoria del valore, il comunismo dev’essere pensato come estinzione integrale di
essa.
L’effetto
più rilevante di questo fatto si rinviene però proprio nella debolezza della
teoria politica marxista.
La stragrande
maggioranza delle persone ritiene corretta la tesi secondo cui Marx avrebbe
ereditato e sviluppato l’utopia democratica di Rousseau, dandole semplicemente
una concretizzazione operaia e proletaria di tipo comunista. Questa è stata,
tra gli altri, la risposta data da Lucio Colletti[13] nel dibattito sopra citato.
Il nostro
autore però ritiene che questa tesi sia errata, e che si debba invece
rintracciare l’origine di questa debolezza non tanto nella continuità tra
Rousseau, Marx e Lenin, ma nell’inconfutabile influenza del pensiero di A.Smith
su Marx.
Per Preve
Marx è caduto vittima dell’incantesimo di quello che Rosanvallon chiama il
“capitalismo utopico” dell’economia politica di Smith, “utopico” appunto poiché
se ne pensava possibile la riproduzione sociale anche senza la mediazione di
uno stato politico, data la “mano invisibile” che lo reggeva. In quest’ottica,
Marx ha soltanto rovesciato il capitalismo utopico senza stato di Smith in un
comunismo utopico senza stato, tanto più realmente speculare quanto più
apparentemente opposto e contrario.
Ecco una
citazione che chiarisce brillantemente la posizione del nostro autore:
“Il
‘capitalismo utopico’ di Smith, come è noto, funzionava idealmente senza
fondazione politica e senza interventi umani consapevoli, sulla base dei soli
meccanismi automatici riproduttivi della mano invisibile del mercato. Il
‘comunismo utopico’ di Marx ha la stessa logica di funzionamento riproduttivo
automatico, e per questo non ha bisogno di essere integrato da una
rappresentanza politica, da un sistema giuridico, da un sistema di istituzioni
come la famiglia e la società civile, da uno Stato ecc. . Per questo Marx
ripete che il comunismo è al di là della famiglia, della politica, del diritto,
della morale, ecc. . Quella di Marx non è un’utopia roussoviana o hegeliana.
Quella di Marx è il prolungamento utopico comunista di una precedente utopia
capitalistica di Smith”[14].
Il
comunismo marxiano appare come il rovesciamento dialettico sostanzialmente
anonimo e impersonale di un capitalismo preventivamente pensato come un meccanismo
autoriproduttore, in cui gli elementi giuridici, politici, statuali e culturali
sono stati fortemente marginalizzati, per non dire del tutto eliminati. Come fa
notare Preve, è proprio qui che l’economicismo si rovescia in utopismo, in
quanto il rovesciamento utopico comunista ha come presupposto la totale
autosufficienza del momento economico[15].
Chiudiamo
questo capitolo con una citazione che illumina una ambiguità ineliminabile nel
pensiero di Marx, e che ci apre la strada per la trattazione del profilo
filosofico originale di Marx che affronteremo nel prossimo capitolo:
“Marx
vorrebbe quindi giungere alla ‘deduzione scientifica’ della necessità storica
della comunità umana ‘comunista’ (egli chiama comunismo semplicemente il suo
ideale di comunità umana universalistica emancipata dall’alienazione) passando
attraverso una forma di sapere non solo caratterizzato, ma addirittura fondato
e radicato sul presupposto dell’individualismo atomistico.
É qui, in
poche parole, l’enigma di Marx”[16].
Ed è da
questo “enigma” che ricominceremo la nostra trattazione.
2.1 Ho terminato il capitolo
precedente con un riferimento ad un’inestricabile ambiguità presente nel
pensiero di Marx, che il nostro filosofo torinese non esita a chiamare un vero
e proprio “enigma”. Per riallacciarci al discorso appena affrontato, e
per richiamare al lettore i termini essenziali della questione, proporrò
un’ulteriore citazione:
“Da
Manchester[17] Marx tornò non sbarazzandosi del
concetto di alienazione (come ha imprudentemente affermato la scuola
althusseriana), ma innestando la teoria dell’alienazione nella teoria del
valore fino a farne un’unità inscindibile. E’ possibile questo? E’ possibile
innestare una teoria filosofica dipendente da un’antropologia e da una dialettica
risalente addirittura agli antichi greci su una teoria economica che ha invece
presupposti utilitaristi e che è per sua natura indifferente od ostile alla
dialettica?
Questo
non è uno dei problemi della concezione di Marx. Si tratta del problema, del solo ed unico
problema teorico reale”[18].
Per
affrontare correttamente questa rilevante questione, è necessario iniziare
interrogandosi sullo statuto scientifico della teoria marxiana.
Nel
marxismo, il termine “scienza” ha sempre costantemente avuto due significati
intrecciati ma incompatibili: il primo derivante dalla nozione di “scienza
filosofica”(Wissenschaft) elaborata dall’idealismo classico tedesco e da
Fichte ed Hegel in particolare, il secondo derivante dalla tradizione di
Galilei e Newton e confluito infine nel positivismo ottocentesco. Nel primo
significato, “scientifico” è ciò che è logicamente ed ontologicamente conforme
al proprio concetto, sulla base del preventivo riconoscimento dell’esistenza di
un fondamento. Nel secondo significato “scientifico” è ciò che è regolarmente
prevedibile, sulla base di un sapere che ha nella matematica e nell’esperimento
i propri fondamenti, che in questo caso però sono solo epistemologici, e non
logico-ontologici, e non hanno perciò bisogno di nessuna filosofia di
riferimento.
Nel
novecento l’interpretazione prevalente in ambito marxista[19] rivendicava con orgoglio lo
statuto scientifico dell’analisi di Marx, visto come un Galileo delle scienze
sociali[20] che con i suoi studi aveva
inaugurato una sociologia materialista o meglio una metodologia delle scienze sociali (per usare la terminologia di un
autorevole marxista come Galvano Della Volpe).
Preve
però, in contrasto con questo illustre indirizzo di pensiero, afferma che il
concetto di scienza in Marx non deriva affatto da Galieo o da Newton, ma
proprio dalla corrente idealistica tanto osteggiata dai pensatori prima citati.
A suo giudizio il loro è “un approccio positivistico, che vorrebbe ricondurre
epistemologicamente Marx ad una ‘vera scienza’ depurata di presupposti
filosofici diffamati come ‘metafisici’, ma questo è impossibile, perché la
‘vera scienza’ presuppone una differenza di principio fra il soggetto
conoscente e l’oggetto conosciuto che mi sembra incompatibile con la nozione di
prassi”[21].
Secondo
il nostro autore la concezione della scienza in Marx, comprendendo
costitutivamente il ruolo della prassi del soggetto, non consente né il
punto di vista di Galileo e di Newton sulla autonomizzazione quantitativa
integrale della previsione scientifica, né il punto di vista di Max Weber sulla
separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore.
Come
scrive in un saggio intitolato Marx der Idealist, “l’idealismo di Marx è una ‘scienza filosofica’
nel senso di Hegel, e non certo una science nel senso dell’empirismo inglese
o una science nel senso del positivismo
francese, in quanto non consente di distinguere fra ontologia ed assiologia,
fatto e valutazione, mentre la science, da Galileo a Newton in poi, si basa proprio
sull’isolamento dei fatti dai valori morali.
Ma il
comunismo di Marx è appunto unità (sottolineatura mia N.d.A.) fra
preferenza assiologica e contenuto economico dell’evoluzione storica”[22].
Secondo
Preve, quindi, il pensiero di Marx non può dar luogo ad una scienza nel senso
“positivistico” del termine, poiché la scienza si basa sulla separazione
funzionale fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, da un lato, e sulla
separazione funzionale fra giudizi di fatto e giudizi di valore, dall’altro. La
scienza filosofica di Marx al contrario, comprende al suo interno non solo il
concetto ma anche la realtà della prassi, e si basa su di un giudizio di valore
negativo complessivo sulla fusione capitalistica di valore e di alienazione.
Per il
nostro autore “soltanto se il capitalismo fosse un sistema economico destinato
al crollo per ragioni endogene e se l’avvento del comunismo potesse essere
previsto come si prevede un’eclisse[23] (togliendo pure a questa
previsione la data, lasciandoci soltanto la sicurezza del suo verificarsi),
potremmo parlare seriamente di ‘scienza’. In caso contrario, (ci) stiamo
raccontando delle storie, secondo l’insuperabile formulazione di Louis
Althusser”[24].
Bene.
Credo sia giunto ora il momento di trattare uno dei temi centrali
dell’interpretazione previana di Marx, ossia la provocatoria tesi per cui il
filosofo di Treviri sarebbe “un idealista al cento per cento”.
2.2 Come anticipato, questo paragrafo
sarà dedicato all’analisi del cosiddetto idealismo di Marx.
Permettetemi
però di tornare brevemente sul tema affrontato nello scorso paragrafo. Un
attento lettore infatti si potrebbe chiedere: “Ma allora Preve vuole negare
totalmente qualsiasi valore scientifico al pensiero di Marx? Non è questa una
mossa sbagliata, ed anzi controproducente?” Certo caro lettore, se così fosse
Preve starebbe commettendo un grave errore “buttando via il bambino con
l’acqua sporca”(come recita il saggio proverbio popolare). Ma
fortunatamente così non è. E per dimostrarlo ci serviremo nuovamente di una sua
citazione:
“É
ragionevole pensare che Marx, intorno ai venticinque anni di età, ha avuto
prima una sorta di intuizione filosofica abbastanza generica, l’intuizione di
una comunità umana solidale conforme all’essenza naturale dell’uomo e libera da
ogni ‘alienazione’ ( questa confusa intuizione è l’oggetto dei quaderni
inediti, pubblicati dopo la sua morte con il titolo redazionale di Manoscritti
economico-filosofici del 1844), e soltanto dopo ha costruito una legittimazione
scientifica che potesse dimostrare l’avvento storico inevitabile di questa sua
intuizione, una legittimazione scientifica definita poi materialismo storico e
teoria pura dei modi di produzione sociali”[25].
Per il
nostro filosofo Marx ha avuto l’intuizione del comunismo come “movimento reale
che abolisce lo stato di cose presenti”, e della necessità di trasformare il
mondo e non solo più di “interpretarlo” come avevano fino ad allora fatto i
filosofi, molto prima di poter minimamente “dimostrare” questo suo comunismo.
Preve,
infatti, non nasconde che in Marx siano presenti sia un dato utopico di origine
romantica, sia un dato scientifico, consistente nella costruzione di quattro
concetti scientifici fondamentali (modo di produzione sociale, forze produttive
sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici) e
nell’applicazione sistematica di questi quattro concetti al modo di produzione
capitalistico.
Per il
nostro autore “l’elemento utopico e quello scientifico fanno entrambi parte in
modo indissolubile del modello di Marx, che è dunque un’utopia scientifica (sottolineatura mia N.d.A.).
Sbagliano dunque, e di grosso, quegli autori marxisti posteriori che hanno
cercato di isolare il solo elemento utopico ( si pensi al tedesco Ernst Bloch)
oppure il solo elemento scientifico (è il caso del francese Louis Althusser)”[26].
Con ciò
Preve afferma che il pensiero marxiano comprende inscindibilmente due elementi
fortemente interconnessi e separabili solo con un’operazione di astrazione
provvisoria, e cioè l’analisi del capitalismo e la sua critica radicale dal
punto di vista del suo superamento “comunista”. Come abbiamo visto infatti, per
il nostro filosofo quella di Marx è un’utopia scientifica (l’ossimoro è ovviamente
intenzionale) in cui un’ispirazione utopica tardoromantica ha suscitato
una specifica critica dell’economia politica basata sulla coincidenza fra la
teoria filosofica dell’alienazione e la teoria economica del valore.
Per
comprendere pienamente questo discorso però è necessario affrontare il tema
centrale di questo secondo paragrafo, ossia l’idea per cui Marx è un’idealista
inconsapevole[27].
Inizieremo
dunque con una citazione tratta da un recente libro di Preve dedicato al
rapporto tra Marx e gli antichi greci, che ci presenta i termini fondamentali
della questione:
“La
filosofia implicita di Karl Marx è una peculiare forma di idealismo universalistico
dell’emancipazione umana, e si configura storicamente come l’ultimo rilevante
episodio della storia dell’idealismo tedesco. Fondamento filosofico della
specifica forma di idealismo di Marx non è il concetto di Io (come in Ficthe) e
neppure il concetto di Spirito (come in Hegel), ma è il concetto di “ente umano
generico” (Gattungswesen). Detto in altri termini, il fondamento del
pensiero di Marx è una fusione fra ontologia ed antropologia.”[28]
Secondo
Preve Marx edificò un sistema filosofico implicitamente idealistico, fondato su
di un progetto che aveva “come soggetto l’ente umano naturale e generico
storicamente inteso (Gattungswesen) e come oggetto il lato negativo
delle situazioni di ‘alienazione’ (Entfremdung) ed il lato positivo di
un progetto di emancipazione universalistica”[29]. La nota tesi marxiana per cui “i
filosofi avevano fino ad oggi solo diversamente interpretato il mondo, ma si
tratta di trasformarlo”, tesi da sempre considerata come esempio di
“rovesciamento dell’idealismo in materialismo”, per Preve è invece un segno di
“idealismo purissimo”, perché la concezione secondo cui il filosofo non doveva
più interpretare il mondo, ma trasformarlo, era già stata enunciata in forma
chiara ed inequivocabile da Fichte nel 1794.
Fichte
distingue infatti fra la logica formale, ossia scienza dell’uso corretto delle
categorie del pensiero che si basa sulla separazione metodologica fra forma e
contenuto, e la “dottrina della scienza” vera e propria (Wissenschaftslehre),
che è una scienza filosofica[30] e che presuppone un rapporto
organico fra un soggetto che progetta, agisce e modifica il mondo ed un
oggetto, naturale e/o sociale, che ne viene agito e modificato.
Secondo
Preve, “quando nel 1845 Karl Marx scrisse che i filosofi avevano fino ad allora
soltanto diversamente interpretato il mondo, e si trattava ora di trasformarlo,
egli non lascia dubbio alcuno di voler riprendere, in una nuova intenzionalità
anticapitalistica e comunista, il programma proposto nel 1794 [da Fichte, N.d.A.]
di una dottrina della scienza filosofica basata sulla centrale categoria di
prassi”[31].
I fautori
del marxismo come metodologia delle scienze sociali hanno da sempre cercato di
segnalare e palesare i punti di contrasto tra l’idealismo(ed in particolare
Hegel) ed il pensiero marxiano, essendo convinti che fosse impossibile
difendere una concezione materialistica e al tempo stesso preservare la
dialettica idealistica. Per loro una scienza sociale non poteva basarsi su
presupposti metafisici, e quindi la loro ricerca era volta innanzitutto a
dimostrare l’enorme differenza presente tra Marx,il suo metodo e le sue
analisi, e la filosofia hegeliana ed idealistica in generale.
Preve si
muove in direzione opposta. Non solo mette in luce i (molti) punti di contatto,
ma asserisce addirittura che “quella di Marx è una ‘dottrina filosofica della
scienza’ nel senso di Fichte, mossa dall’intenzione di trasformare il mondo e
non solo di ‘rispecchiarlo’ ”[32].
Secondo
il nostro autore Marx non ha affatto rovesciato la dialettica hegeliana,
rimettendola “sui piedi”, ma si è semplicemente limitato ad applicarla ad un
oggetto scientifico nuovo, ossia la sua teoria dei modi di produzione sociali.
Marx e Hegel hanno perciò in comune sia l’oggetto (la totalità ontologica della
società umana pensata come un tutto) sia il metodo (il metodo dialettico), e
quindi, nonostante alcune importanti differenze, questi due filosofi fanno
parte a suo parere di un “insieme inscindibile”.
Prima di
passare all’analisi dell’alienazione in Marx (tramite cui esamineremo anche il
concetto di Gattungswesen), e del suo materialismo, chiuderei con una
citazione previana che sintetizza compiutamente il percorso fin ora compiuto:
“Filosoficamente,
io considero Marx non un materialista (tanto meno dialettico!), ma l’ultimo
esponente della grande scuola dell’idealismo classico tedesco iniziata con Ficthe.
Tanto per essere chiari, un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere
psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con falsa coscienza
necessaria come materialismo.Dal punto di vista ‘scientifico’, Marx è interno
al sogno positivistico (iniziato dal francese Comte) di produrre una conoscenza
scientifica unitaria del presente storico che fosse però anche predittiva e
prognostica. Era questa la concezione di ‘scienza’ del tempo, e considerarla
oggi con sufficienza equivale, a mio modesto parere, a considerare con
sufficienza Aristotele perché non aveva ancora letto Newton e Darwin”[33].
2.3 Prima di dedicarci
allo studio del cosiddetto “materialismo” di Marx, vorrei fare un breve accenno
alla questione dell’alienazione(Entfremdung, Entäusserung) in Marx.
Si tratta
di una nozione centrale nel pensiero del giovane Marx, che però di fatto non
ritorna più nelle opere della maturità.
Nella
storia del marxismo, nei confronti di questo tema vi sono stati (e vi sono
tuttora) sostanzialmente due atteggiamenti: alcuni affermano che questa nozione
non ritorna più poiché Marx l’ha volutamente abbandonata, avendo realizzato una
“rottura epistemologica” che abbandonava integralmente ogni concetto
idealistico di origine hegeliana e/o feuerbachiana in favore di una concezione strutturale dei rapporti sociali di
produzione; altri (come il nostro filosofo torinese) sostengono invece che
questa nozione filosofica non ritorna più non perché Marx l’avesse ripudiata,
abbandonata o “superata”, ma perché l’aveva per così dire “metabolizzata” e
incorporata nel suo procedimento di pensiero.
Lo stesso
concetto di alienazione può essere inteso in modi diversi. In un primo
significato, alienazione significa abbandono progressivo
di una situazione originaria per definizione pura, ed appunto ancora non
“alienata”. Come sappiamo, questo significato è caratteristico del pensiero
religioso che per definizione è un pensiero dell’Origine, non solo perché Dio
come Creatore è all’Origine del mondo, ma anche perché la storia umana è una
storia per definizione peccaminosa in quanto si “distacca” dalla sua origine,
cui si tratterebbe appunto di ritornare e di restaurare in tutta la sua
incorrotta purezza.
In
quest’ottica, quando si scopre (ed è il caso di Lucio Colletti) che la teoria
dell’alienazione è strettamente intrecciata con la teoria del valore, e che
quindi non è possibile separare un Marx scienziato da un Marx fortemente
influenzato dal pensiero hegeliano e dialettico, si è fatalmente portati a
vivere il marxismo semplicemente come una secolarizzazione dell’escatologia
giudaico-cristiana, situazione che non può che concludersi con un congedo
definitivo da Marx e dal marxismo in generale.
Preve non
nasconde che questa “grande-narrazione abbia caratterizzato il marxismo
storicamente esistito[..], perché il marxismo è fondamentalmente stato
un’ideologia di una classe profondamente subalterna[34], e le classi subalterne tendono
spontaneamente e con ineluttabilità magnetica ad una concezione religiosa del
mondo”[35]. Ma a suo parere Marx riteneva l’ente
naturale generico alienato non tanto rispetto ad una sua origine, quanto rispetto alle sue possibilità ontologiche ed antropologiche:
“La nozione centrale del concetto di alienazione in Marx non è quello di
‘origine’ (archè), ma quello di ‘possibilità’, più esattamente di
‘essente-in-possibilità’(dynamei on)”[36].
In
quest’ottica il termine alienazione (Entfremdung) non deve essere
concepito in rapporto a un’origine perduta nel ciclo della peccaminosità umana,
ma deve essere invece più sobriamente inteso come estraniazione dalle concrete
possibilità ontologiche di una vita sensata. Per
Preve, “l’alienazione è tale solo in rapporto (sottolineatura mia, N.d.A.) alle potenzialità immanenti (dynamei
on) dell’ente naturale generico (Gemeinswesen, Gattungwesen)”[37].
Come si
può notare, l’interpretazione previana è opposta rispetto alla precedente;
invece di legare il pensiero marxiano alla tradizione giudaico-cristiana, Preve
segnala l’innegabile influenza esercitata dal pensiero greco (ed in particolare
aristotelico) su Marx.
Per
Preve, in contrasto con una corrente di pensiero spesso prevalente, è
Aristotele, assai più di Platone, il pensatore antico che ha di fatto ispirato
maggiormente Marx. Riferendosi alle analisi di Michel Vadée[38], il filosofo torinese asserisce che
“la categoria che forse indica maggiormente l’influenza di Aristotele su Marx è
quella di ‘possibilità oggettiva’, o più esattamente di ‘potenzialità
immanente’ (dynamei on). Possibilità che non ha nulla a che vedere con
la semplice casualità o contingenza (katà to dynatòn). In Marx il
passaggio dal capitalismo al comunismo, che in genere è stato inteso e
concepito come un passaggio ‘necessario’, nel senso di fatale e ferreamente
predeterminato, è invece pensato (e le analisi di Vadée sono qui
particolarmente convincenti) secondo la modalità aristotelica del passaggio
dalla potenza (dynamis) all’atto (energheia). In questo passaggio
non c’è nessuna necessità, ma neppure nessuna contingenza assoluta intesa di
fatto come ‘casualità aleatoria’, secondo l’impostazione dell’ultimo Althusser”[39].
In
quest’ottica Marx viene interpretato come un pensatore aristotelico della
possibilità ontologica, e non come un pensatore del determinismo positivistico
e della connessa concezione necessitaristica di scienza; il comunismo perciò
“resta una possibilità ontologica interna agli sviluppi sociali del
capitalismo, non certo un esito necessariamente veicolato da aumenti della
composizione organica del capitale, cadute tendenziali del saggio di profitto,
crescite esponenziali della coscienza di classe operaia e proletaria e via
fantasticando e auspicando soluzioni provvidenziali in chiave economicistica
e/o sociologistica della storia”[40].
Secondo
Preve, un altro punto in cui è possibile constatare quanto l’eredità
aristotelica abbia influito su Marx è la nozione marxiana di natura umana; come
viene fatto notare, “tutta l’antropologia filosofica di Marx, e cioè la sua
concezione della natura umana in società,[..] coincide pressoché al cento per cento con
la teoria di Aristotele sull’uomo come essere per natura politico, sociale e
comunitario (politikòn zoon) e come essere dotato di ragione, linguaggio
e capacità di calcolo scientifico (zoon logon echon)[41]. Questo fa di Marx una sorta di
aristotelico moderno, se pensiamo che invece tutto il pensiero politico detto
‘moderno’ [..] nasce con Thomas Hobbes con una radicale e provocatoria
inversione di prospettiva (rispetto all’antropologia aristotelica, N.d.A.)”[42].
Riallacciandomi
a quest’ultima citazione, ritengo necessario soffermarmi su un concetto finora
poco trattato, ossia la nozione di Gattungswesen.
Secondo
Preve, utilizzando il termine Gattungswesen (che si può tradurre come
“essenza del genere”, o meglio come “essenza umana generica”) Marx intende dire
che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha un’essenza specifica che
si trasmette per eredità naturale, ma ha un’essenza aperta che gli permette di
costituire forme diversissime di socialità.
Per
chiarire meglio la questione, credo sia necessario soffermaci su questa
citazione tratta da Marxismo e filosofia:
“Quando
parliamo di alienazione, cioè di cessione e di perdita, bisogna subito dire chi
è che aliena e che cosa aliena. Chi aliena è l’uomo, e non l’uomo naturale
sebbene l’uomo già storicamente costituito (e non c’è dunque nessuna paura di
cadere nel naturalismo astorico o nell’umanesimo astratto interclassista), e
ciò che aliena è la sua essenza umana generica (Gattungswesen). Egli non
aliena dunque solo la sua essenza umana, che è l’insieme dei rapporti di
produzione, e non comprende l’elemento naturale e biologico della sua
costituzione antropologica complessiva, ma aliena qualcosa di più, la sua
essenza umana generica, in cui ciò che conta veramente è la parola ‘generica’.
La parola ‘generico’ si contrappone alla parola ‘specifico’. Le termiti non si
alienano assolutamente nel loro termitaio, così come le api non si alienano
assolutamente nel loro alveare. Come si vede, il concetto di essenza umana non
deve essere confuso con quello di natura umana, che è più ampio, e comprende
una sintesi di naturale e di storico, mentre l’essenza umana è solo storica, e
chi si ferma ad essa sbocca in un povero sociologismo. Anche la natura è
ovviamente storica, ma la sua storicità è più lenta, e dunque l’uomo
antropologicamente è l’unione di due temporalità distinte anche se
interconnesse. Proprio perché l’uomo è un ente naturale generico il capitalismo
lo aliena, perché lo strappa alla sua genericità e lo rende specifico, cioè
specifico ai soli rapporti capitalistici di produzione, che vengono appunto
specificati, nel senso di animalizzati ”[43].
A
differenza degli animali, che sono biologicamente specifici, cioè
predeterminati a ruoli e comportamenti direttamente dettati dal loro imprinting biologico, l’uomo è generico, non
è vincolato a nessuna riproduzione fissa e specifica, ed appunto per questo si
può alienare, estraniare, ma anche deificare, cosa che ovviamente l’animale non
può fare[44].
A
proposito della storicità dell’uomo, Preve afferma che “proprio dal fatto che
la cosiddetta ‘essenza umana’ è storica e non naturale, la natura umana è vista
come un Gattungswesen, cioè come caratteristica dell’uomo come ente
naturale generico e non specifico, o più esattamente che si specifica
storicamente solo sulla base di una genericità costitutiva precedente. In
quanto ente naturale generico, l’uomo non è geneticamente prefissato a dar luogo
a una e una sola forma di oggettivazione sociale. [..] L’ente naturale
generico, cioè la Gattungswesen, che costituisce l’uomo come essere
inscindibilmente naturale e sociale, permette all’uomo la storicità, che non è
soltanto l’infinita produzione di configurazioni storiche e sociologiche
diverse, ma è anche il luogo della perdita e del ritrovamento di se stesso.”[45].
Come si può facilmente intuire, per Preve il fatto che l’essenza umana sia
storica e non naturale non significa che la natura umana non esista.
Molti
filosofi credettero al contrario che Marx avesse sostenuto la tesi per cui la
natura umana non fosse altro che l’insieme dei rapporti sociali, e lo avrebbe
fatto per criticare coloro che sostengono invece una teoria dell’immutabilità
della natura umana per giustificare la conservazione dei vecchi rapporti
sociali. Questi pensatori marxisti sostennero che la natura umana in sé non
esiste, o meglio esiste solo nella successione storica dei comportamenti
sociali, e quindi il comportamento sociale comunista è antropologicamente
possibile purché lo si voglia e lo si generalizzi con l’abitudine, l’educazione
ed anche (se necessario) con la coercizione. Questa corrente di pensiero,
maggioritaria per tutto il novecento, propugnò così una concezione prometeica
in cui la malleabilità illimitata della natura umana socialmente condizionata
fu vista come il presupposto di una creatività onnilaterale.
Ma come
fa notare Preve, “qui si nasconde un tranello, in quanto purtroppo Prometeo ed
il Grande Fratello abitano nello stesso appartamento. Il presupposto della
creatività illimitata è filosoficamente affine, contiguo ed omologo al
presupposto della manipolazione illimitata. Creatività illimitata e
manipolazione illimitata vivono sotto lo stesso tetto. A differenza di come
credono ingenuamente i relativisti sociologistici,[..] la sola garanzia contro
la possibilità della manipolazione illimitata politica e sociale sta nella resistenza innata della natura umana”[46].
Negare
ogni rilevanza al concetto ed alla realtà della natura umana significa consegnarsi
alla manipolazione, la cui premessa sta proprio nella possibilità di
“modellare” senza limiti la natura umana stessa, non importa se nella forma del
consumo eterodiretto oppure nella forma del dispotismo burocratico. Come scrive
il nostro autore, “chi nega la natura umana, e lo fa ‘da sinistra’ convinto che
si tratti di un concetto conservatore e reazionario (confondendo così l’uso
ideologico del concetto con la sua pertinenza filosofica e ontologica), non
capisce purtroppo che proprio il carattere generico della natura umana stessa è
il principale fattore di impedimento alla stabilizzazione di una dittatura
manipolatrice”[47].
Vorrei
chiudere questo paragrafo dedicato al concetto di ente naturale generico e di
alienazione con una citazione, che in maniera molto chiara e concisa, riassume
i termini essenziali della questione:
“Se è
vero che l’uomo è un ‘ente naturale generico’ (Gattungswesen) allora è
‘alienata’ qualunque situazione che gli vuole imporre come cosa irrigidita,
immutabile e deificata, una situazione storica determinata (che sia lo
stalinismo o la globalizzazione)”[48].
2.4 Come anticipato, in
questo paragrafo analizzeremo il cosiddetto “materialismo” di Marx.
È
innegabile infatti che Marx, per tutta la sua vita, si sia percepito come un
pensatore interamente materialista, e che la tradizione che a lui si ispirava
abbia fatto del materialismo una bandiera. Queste considerazioni però
smentirebbero tutte le analisi finora compiute, che si basavano appunto sulla
premessa dello statuto integralmente idealistico del pensiero marxiano. Com’è
possibile una tale contraddizione?
È presto
detto. Come vedremo più in dettaglio, nella concezione previana il termine
“materia” compare in Marx sempre e soltanto come metafora che rimanda a qualcos’altro e che, in ogni caso, non è mai la
materia nel senso classico e scontato. Ciò significa che, “quando Marx parla di
‘materia’, non si riferisce mai a una natura costituita da elementi materiali e
dotati di un movimento retto da leggi determinabili con precisione matematica
(secondo l’immagine del mondo consolidatasi a partire dal Seicento)”[49]. Per dirla con
Preve, “in Marx c’è certamente anche del ‘materialismo’, ma c’è soltanto come
‘metafora’, o più esattamente come insieme di ‘metafore’ ”[50].
Preve
afferma recisamente che “non si esce dall’idealismo proclamando di non voler
più essere ‘idealisti’. Se infatti i propri sistemi concettuali hanno sempre
come fondamento la nozione di alienazione, e soltanto la coscienza umana
individuale e sociale è il soggetto di questa alienazione possibile (perché la
‘materia’ non può certo esserlo), allora si è sempre sul terreno ontologico
dell’idealismo,[..] anche se ci si illude di esserne usciti”[51].
A suo
parere, Marx utilizza infatti la metafora della “materia” per indicare quattro
distinti atteggiamenti: l’ateismo, e cioè la negazione dell’esistenza di
una divinità ultraterrena pensata in modo personale, e quindi inevitabilmente
antropomorfizzante, laprassi, e cioè la modificazione materiale attiva
dei rapporti di produzione “alienati”, lo strutturalismo, e cioè il primato della
struttura sulle sovrastrutture, ed infine la libertà umana[52]. Esaminiamo brevemente la sua
argomentazione.
Preve
parte dall’affermazione marxiana per cui “non si può giudicare un uomo
dall’idea che egli ha di se stesso”[53]. Come scrive in un suo recente
lavoro “in filosofia, a differenza che per alcune pratiche burocratiche
semplificate, l’autocertificazione non è un principio metodologicamente infallibile”;
a suo parere infatti, “nella congiuntura storica concreta del decennio 1835-1845 solo
l’autocertificazione soggettivamente veridica di ‘materialismo’ permetteva di
fatto di rompere con l’insieme delle ideologie
dominanti”[54]. Come abbiamo d'altronde visto
precedentemente, Preve afferma che Marx è “un idealista al cento per cento,
costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con
falsa coscienza necessaria come materialismo”[55].
Analizziamo
ora il significato che di volta in volta prende il termine materia nel pensiero
marxiano. Secondo il nostro filosofo, il primo significato metaforico di
materialismo è quello che lo identifica con il cosiddetto “ateismo”, e cioè con
la negazione dell’esistenza di un Dio unico concepito in modo personale e
onnipotente. Scrive Preve: “Marx è un idealista inconsapevole (il terzo dei
grandi idealisti, dopo Fiche e Hegel), che si crede materialista per il fatto
che, essendo ateo, ritiene che tutti gli atei siano per definizione
materialisti”[56]. L’ateo è infatti identificato
automaticamente con il “materialista”, in quanto quest’ultimo, negando Dio,
afferma di conseguenza che l’unica realtà di cui possiamo sensatamente parlare
è quella “materiale”.
Il
secondo significato metaforico è quello che identifica il materialismo come
metafora della prassi attiva rivoluzionaria trasformatrice, sia individuale che
collettiva. L’incunabolo di questa variante si trova nelle famose Tesi su Feuerbach, ed in particolare
nell’undicesima[57]. Dopo aver ribadito che questa tesi,
considerata inerzialmente da più di un secolo come esempio di “rovesciamento
dell’idealismo in materialismo” era invece un segno di idealismo purissimo,
poiché la concezione secondo cui il filosofo non doveva più interpretare il
mondo, ma trasformarlo, era già stata enunciata in forma chiara ed
inequivocabile da Fichte nel 1794, Preve fa anche notare che “mentre i
cosiddetti ‘materialisti’ (primo fra tutti il greco Epicuro) scelgono
generalmente strategie di esodo e di secessione dal ‘mondo’ in base alla
diagnosi realistica per cui sarebbe troppo difficile ‘trasformarlo’, è stato
invece il super-idealista Ficthe a identificare di fatto l’interpretazione con
la trasformazione del mondo, identificazione che può avvenire soltanto su basi idealistiche (nel suo
caso, con il rapporto organico fra Io e conoscenza-trasformazione del Non-Io)”[58].
Passando
al terzo significato metaforico di materialismo, quello che (per Preve) di
fatto corrisponde integralmente ai termini “materialismo storico” o “concezione
materialistica della storia”, giungiamo al caso in cui viene allegorizzato con
il termine “materia” il riferimento alla base strutturale dei rapporti sociali
di produzione. Come sappiamo, la concezione materialistica della storia è
fondata su un modello strutturalistico per la comprensione del passato e del
presente storici; in questo caso Preve, concedendosi una sorta di liberta
d’interpretazione, afferma che “in un certo senso [..] la ‘struttura’ è
considerata come la ‘materia’ di un Tutto in cui la ‘sovrastruttura’ è
considerata come la ‘forma’ ”[59].
L’ultimo
significato metaforico che il nostro filosofo ci segnala è quello in cui il
termine materia indica l’idea di libertà. Com’è noto, nella sua tesi di laurea
in filosofia discussa a Jena nel 1841 Marx esamina le differenze fra i due
sistemi “atomistici” del pensiero greco, quello di Democrito e quello
successivo di Epicuro. Preve sostiene che “in modo molto acuto ed intelligente
Marx vede subito che il parlare da parte di Epicuro di ‘deviazione’ degli atomi
(clinamen, parekklisis) non è qualcosa che riguardi solo il macrocosmo
naturale, ma è un sintomo ed una metafora di come viene invece concepito e
concettualizzato anche e soprattutto il mondo sociale e politico, da un lato, e
la sorte dell’individuo singolo pensato come un ‘atomo’, dall’altro. E così
Marx, spesso frettolosamente connotato come filosofo dell’autoritarismo o
dell’eguagliamento forzato degli individui secondo il modello costrittivo della
caserma e/o del convento, esordisce invece come vero e proprio
filosofo della libertà. La libertà dell’individuo è pensata appunto come una
‘deviazione’ (clinamen, parekklisis) dalla caduta verticale, ed a sua
volta la caduta verticale degli atomi è interpretata metaforicamente come un
determinismo sociale rigido che non consentirebbe alcuna innovazione
individuale e sociale”[60].
Secondo
Preve, che qui espone una delle sue tesi più provocatorie, la genesi storica,
filosofica e psicologica del pensiero marxiano è un episodio interno alla
dialettica della coscienza infelice borghese[61]. A suo parere, il giovanile
interesse marxiano per la filosofia epicurea (che introduceva nel determinismo
di Democrito l’elemento del caso) era lo strumento intellettuale con cui il
Marx studente pensava “la propria scelta soggettiva di non inserirsi nella riproduzione
spirituale e materiale della società borghese, in cui era nato ed era stato
allevato, e in cui secondo il determinismo meccanicistico applicato alla
società avrebbe dovuto inserirsi, ma di scegliere di fare una vita
assolutamente alternativa, ispirata alla lotta contro la superstizione
dell’eternità del capitalismo”[62].
Mi rendo
conto quanto queste tesi possano influire sul senso di straniamento avvertito
dal lettore. In questa sede segnaliamo soltanto che anche un pensatore della
statura di Etienne Balibar percorre una strada molto vicina a quella di Preve,
individuando nel marxiano “ ‘materialismo della pratica’ la forma più compiuta
della tradizione idealistica”[63], e non un’inversione di rotta
rispetto ad essa.
Prima di
chiudere questo capitolo, vorrei soffermarmi però su una tesi inedita (molto
apprezzata dal professor Preve) della studiosa greca Maria Antonopoulou sul concetto di materia.
L’Antonopoulou ha sostenuto in un saggio ampio e ben documentato
filologicamente[64] che non è corretto scrivere una
storia del cosiddetto “materialismo” come se si potesse tracciare un’unica
grande-narrazione unificata da Democrito fino a Marx ed oltre (come fece per
esempio la scuola del materialismo sovietico per tutto il novecento). Il
materialismo “moderno” propriamente detto, che presuppone i modelli della
scienza sperimentale di Galileo e dell’immagine cosmologica dell’universo di
Newton, nasce solo nel settecento europeo, e nasce secondo l’ipotesi per cui
era ormai necessario “unificare” in un solo concetto (la “materia” appunto) il
mondo terrestre ed il mondo celeste. In questo modo si creava un medium omogeneo spaziale (la “materia”)
in cui le merci avrebbero potuto circolare liberamente e senza alcun
impedimento.
Come
Preve fa acutamente notare, se così fosse il materialismo, “generalmente considerato il
presupposto della visione proletaria e scientifica del mondo contro tutti i
preti monoteisti e i filosofi idealisti, è in realtà marxianamente (e cioè
secondo un rapporto di omologia tra formazioni sociali e corrispondenti
formazioni ideologiche) interpretabile come l’edificazione di un solo spazio
materiale unificato in cui simbolicamente potesse ‘transitare’ senza impacci lo
scambio delle merci in domanda e in offerta”[65].
A questo
proposito, il filosofo torinese fa notare come anche “il filosofo tedesco
Koselleck, che ha studiato accuratamente la genesi del concetto moderno di
‘storia’ inteso non come semplice racconto di fatti (Erodoto) o come
riflessione intelligente sulle cause dei fatti stessi (Tucidide), ma come vera
e propria storia unificata dell’umanità pensata a sua volta come un unico
concetto trascendentale riflessivo, ne colloca l’inizio verso la metà del
Settecento, e quindi in pieno periodo illuministico”[66].In quest’ottica, due concetti che
tradizionalmente erano pensati come strumenti proletari contro la borghesia
tradizionalista ed idealista, si scoprono essere “quanto di più ‘borghese’ ed
‘utilitaristico’ possibile”[67]: nel settecento infatti il tempo
venne unificato sotto la nozione di Storia, intesa come un concetto
trascendentale riflessivo in cui il nuovo soggetto borghese potesse pensare
astrattamente la propria universalizzazione e quindi anche la propria
“mondializzazione”, e lo spazio venne unificato sotto la nozione di Materia,
concepita come un concetto trascendentale riflessivo in cui il nuovo soggetto
capitalistico potesse pensare astrattamente lo scambio illimitato delle merci e
il dominio omogeneo del valore di scambio.
3.1 Siamo giunti
all’ultima parte di questo nostro breve saggio. Dopo esserci fermati ampiamente
sullo statuto filosofico e sugli aspetti per così dire più vitali del pensiero marxiano, in questo
capitolo analizzeremo i punti più problematici di questo stesso pensiero ed in
particolare quelli che Preve chiama “errori di previsione”.
Iniziamo
dunque elencando i punti che falsificano le analisi di Marx (ovviamente,
secondo il nostro autore), per poi soffermarcisi adeguatamente sopra. Secondo
Preve[68]:
1) Le classi subalterne non sono state in grado di
resistere alla radicalizzazione della sottomissione reale del lavoro al
capitale che le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistici.
Esse hanno così smentito empiricamente l’attribuzione metafisica che ne aveva
fatto un Soggetto inter-modale.
2) La borghesia storica non esiste più, così come
non esiste più quella “coscienza infelice” che le permetteva di conservare un
atteggiamento critico nei confronti del suo stesso dominio, e che si era
manifestata nella grande letteratura (Balzac, Dickens, Tolstoi, Zola, Proust,
Thomas Mann, ecc.), o nel grande pensiero (Kelsen, Husserl, Cassirer, Croce,
Durkheim, ecc.). La nuova élite dirigente, positivista ed economicista, è una
classe nichilista che conosce soltanto la legge dell’accumulazione infinita del
capitale, indifferente ai costi umani ed ecologici.
3) Il neocapitalismo per ora
vittorioso si è mostrato capace di sviluppare le forze produttive ad un ritmo prodigioso,
nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura. Ha
potuto legittimarsi come il solo ordine possibile, facendo riferimento alle
virtù di mercato, alla democrazia rappresentativa, alla “religione dei diritti
umani”[69] e alla seduzione di un consumismo
generalizzato.
Come si
nota, Preve colpisce alcuni tra i nuclei portanti del pensiero marxista
tradizionale. Quest’operazione non viene compiuta in nome di uno sterile
spirito di decostruzione; il filosofo torinese è interessato al contrario alla
rinascita di un dibattito serio e fecondo su Marx, ma ritiene che
l’accettazione acritica di punti rivelatisi infondati possa rappresentarne
soltanto un deleterio impedimento.
Il nostro
autore fa notare a proposito come il marxismo abbia per più di un secolo
tentato di dimostrare un fatto paradossale, ossia l’illusoria tesi per
cui “Marx aveva ragione nel 100% di quello che diceva, e al massimo vi potevano
essere errori di fraintendimento e di interpretazione”; poco oltre prosegue:
“L’idea
che un pensatore abbia capito tutto e non vi siano nel suo pensiero incoerenze,
incertezze, illusioni ecc., è un’idea superstiziosa. Il soffocante abbraccio di
questi fanatici amici di Marx ha a lungo impedito la naturale applicazione
dello stesso metodo
critico di Marx al suo proprio pensiero marxiano e sopratutto al
marxismo successivo. E’ infatti del tutto assurdo che il geniale scopritore del
metodo della critica alle ideologie fosse, egli solo nella lunga storia del
mondo, del tutto immune da un condizionamento ideologico nell’elaborazione
della propria dottrina. E’ anche assurdo che egli sia stato l’unico pensatore
della storia del mondo ad avere conseguito una perfetta ed assoluta trasparenza
sull’uso critico delle proprie fonti ideologiche, scientifiche e
filosofiche.
Il culto
di Marx ha impedito per quasi un secolo un’analisi critica del suo pensiero.
Naturalmente, vi era una ragione per spiegare questa follia. Marx doveva essere
infallibile in tutte le cose che diceva, perché magicamente la sua
infallibilità potesse essere trasmessa e trasferita ai dirigenti politici del
movimento comunista burocratizzato”[70].
Come
viene qui chiaramente illustrato, ma come è anche sostanzialmente noto, per i
burocrati del comunismo storico novecentesco l’infallibilità di Marx era una
risorsa ideologica, “perché il decretare infallibile il fondatore della ditta
significava simbolicamente proiettare questa infallibilità originaria sulla
loro presente infallibilità verso i seguaci fideisti e creduloni”[71].
Preve
però non si limita a questa semplice affermazione: come tiene a precisare in un
saggio successivo a suo parere “il marxismo, fenomeno largamente indipendente
da Marx, non fu né un errore di interpretazione degli epigoni, né un tradimento
di politici corrotti e neppure un travisamento religioso di plebi fideistiche
ed irrimediabilmente subalterne e bambine, ma fu un ‘adattamento darwiniano’
assolutamente necessario. Nella forma aporetica e non coerentizzata datagli da
Marx, il marxismo sarebbe stato impossibile, o sarebbe diventato al massimo
quello che è diventato ora, e cioè una gnosi salvifica della storia ad un tempo
gratificante (filosoficamente) ed impotente (politicamente)”[72]. Come viene ripetuto più avanti, “il
cosiddetto ‘marxismo’ è [..] solo un adattamento darwiniano alla committenza
ideologica imperativa di un ben preciso soggetto sociale prima inesistente, e
cioè la classe operaia di fabbrica evocata dalla seconda rivoluzione
industriale, che ebbe nella Germania il suo paese guida in Europa. [..] Il
marxismo è diventato una gigantesca forza storica per almeno un secolo
(1890-1990) non nonostante i suoi macroscopici errori
scientifici, ma proprio grazie a questi errori scientifici. Un
marxismo ‘giusto’ e conforme a Marx sarebbe rimasto una interessante elucubrazione
testimoniale ultraminoritaria. Il marxismo ‘frainteso’ e ‘tradito’ è invece
divenuto, proprio in grazia dei fraintendimenti e dei tradimenti, una
gigantesca forza storica”[73].
In
quest’ottica il marxismo è visto come un modello teorico che, anche partendo da
tesi originali di Marx, le combinava insieme in modo tale da togliere a queste
tesi ogni carattere aperto e problematico, conferendole una chiusura dogmatica
facilmente spendibile sul terreno della “mobilitazione dei militanti” e
soprattutto della loro “rassicurazione religiosa circa il buon esito finale
garantito dei loro sforzi e delle loro aspirazioni”.
È giunto
però il momento di interrogarsi proprio sull’entità e sulle reali capacità di
questi stessi militanti, ossia quella che Marx chiama classe operaia di fabbrica.
Come
sappiamo, fu lo stesso Marx ad assegnare alla classe operaia, proletaria e
salariata il compito e la funzione di emancipare insieme a se stessa anche
l’intera umanità, guidando la società verso la costruzione del futuro mondo
comunista il cui magnifico motto sarebbe diventato “ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Per tutto
il novecento si fraintese questa tesi marxiana, associando la classe operaia al
Soggetto emancipatore indicato da Marx. Riferendosi alle acute analisi di
Gianfranco La Grassa[74], Preve mette in luce come il
Soggetto rivoluzionario marxiano fosse invece il lavoratore collettivo cooperativo
associato,
formatosi tramite la socializzazione capitalistica delle forze produttive, e
destinato ad allearsi con le potenze mentali della produzione capitalistica da
Marx definite con il termine inglese di general intellect[75]. É questo per Marx il probabile
affossatore del capitalismo, non certo la classe dei lavoratori manuali di
fabbrica in quanto tale. Questa classe è infatti per il filosofo di Treviri
solo quella porzione di lavoratore collettivo cooperativo associato
suscettibile di essere organizzata sindacalmente e politicamente.
Purtroppo
però questo lavoratore collettivo associato, dal direttore di fabbrica
all’ultimo manovale, non si è mai creato.
La Grassa spiega come l’ipotesi scientifica
marxiana si sia rivelata errata per essersi strutturata a partire dalla forma
della fabbrica anziché dalla forma dell’impresa. Le fabbriche infatti
socializzano effettivamente la produzione, mentre le imprese invece la
frammentano.
Il
capitalismo però è fatto in prima istanza di imprese, e soltanto in seconda
istanza di fabbriche, ed in questo modo inevitabilmente non si forma e non si
può formare il lavoratore collettivo associato previsto da Marx.
Come fa
notare inoltre Preve in un suo recente libro, “a differenza di come affermava
erroneamente il marxismo, la classe operaia manifestava fisiologicamente una
natura ribellistica (scambiata spesso per rivoluzionaria) soltanto nel primo
periodo della sua recente uscita dalla precedente cultura comunitaria di tipo
artigianale, bracciantile e contadina, mentre mano a mano che si ‘integrava’
nella società industriale capitalistica si adattava massicciamente sia
all’economicizzazione puramente sindacalistica del conflitto sia
all’incorporazione nazionalistica. Detto altrimenti, la classe operaia e
salariata europea realmente esistente, e non il suo raddoppiamento ideale
sognato dal comunismo, era spontaneamente socialdemocratica e non certo
‘comunista’ ”[76].
Preve fa
qui riferimento alle analisi svolte da Zygmunt Bauman[77] in un libro intitolato Memorie di classe, in cui il noto sociologo spiega
come già a partire dagli anni venti dell’Ottocento in Inghilterra (e poi
progressivamente in altri paesi) la classe operaia abbia dovuto accettare il
terreno obbligato della cosiddetta “economicizzazione del conflitto”,
tramite cui rinunciava ad imporre il ritorno a forme produttive precedenti o
alternative per inserirsi sul nuovo terreno della distribuzione maggiormente
equa dei beni e dei servizi prodotti capitalisticamente. Secondo il filosofo
torinese questo fattore, sommato alla cosiddetta nazionalizzazione delle masse e all’integrazione consumistica,
rivelò l’incapacità rivoluzionaria della classe operaia, che invece di
dimostrarsi quella classe universale cui Marx anelava si dimostrò
essere una classe intrinsecamente subalterna.
Preve
comunque non intende affatto colpevolizzare Marx per questo errore; come scrive
in un suo recente saggio, “la prima cosa che si impara studiando Marx e il
marxismo è che non ha senso retrodatare la consapevolezza di un fenomeno,
positivo o negativo che sia, ad un momento storico precedente in cui non ne
erano ancora apparse le condizioni di visibilità”[78].
3.2 Con ciò ci siamo
lasciati alle spalle una delle tesi più “scandalose” (per il tradizionale
pensiero comunista) del nostro filosofo di Torino. In questo paragrafo
affronteremo però un altro tema perlomeno altrettanto spinoso, ossia la sua nozione di
Borghesia.
Secondo
l’impostazione tradizionale, la borghesia è la classe sociale portatrice dei rapporti di produzione
capitalistici; essa è dunque ritenuta una vera e propria classe-soggetto, a cui
si contrappone la classe-soggetto (ritenuta intrinsecamente rivoluzionaria) dei
proletari. Come abbiamo appena visto, La Grassa e Preve smentiscono in toto questa seconda tesi, dimostrando
anzi come la classe operaia sia facilmente assimilabile nella logica del
capitale tramite un’opera di integrazione statalistica e consumistica.
Ma il
nostro autore dimostra come anche la prima affermazione, sottoposta ad
un’attenta analisi, si riveli errata. Preve afferma: “Ritengo che ogni concezione della
borghesia come classe-soggetto del capitalismo, concezione che porta in fondo a
identificare i due termini (con la Borghesia che diventa il ‘lato soggettivo’
del Capitalismo, e il Capitalismo che diventa il ‘lato oggettivo’ della
Borghesia) sia errata nell’essenziale, e dunque da abbandonare”[79].
Per il
nostro autore infatti il capitalismo è un sistema autoriproduttivo largamente
impersonale, mentre la borghesia è un soggetto sociale collettivo assai
complesso. Come scrive in un suo saggio, “l’abitudine a concepire il
capitalismo in modo antropomorfico è dura a morire. Il capitalismo, però, non è
il teatro delle azioni coscienti di un Soggetto collettivo denominato
Borghesia, ma il luogo sistemico di una riproduzione anonima e impersonale, che
si tratta di conoscere bene”[80].
La tesi
di Preve è che oggi si stia assistendo ad un sistema sostanzialmente
post-borghese e post-proletario in cui il capitalismo “ha liberalizzato la sua
etica e il suo riferimento alla religione, e lo ha fatto spinto dalla sua
intrinseca logica ad allargare la mercificazione universale dei beni e dei
servizi, per cui oggi sono mercificati beni e servizi che la borghesia classica
intendeva invece preservare dalla sua stessa attività mercificante. I marxisti
sciocchi e superficiali naturalmente non capiscono questa distinzione
elementare, e continuano a definire ‘forze conservatrici’ le forze economiche e
politiche capitalistiche, laddove ovviamente è il contrario. Esse non
‘conservano’ proprio nulla”[81].
Il modo
di produzione capitalistico è stato indubbiamente promosso e sviluppato da una
classe sociale europea chiamata “borghesia”, ma ormai da quasi vent’anni si è
passati ad una fase che il nostro autore designa come ultracapitalistica, in cui gli agenti
imprenditoriali della produzione capitalistica non coincidono più con la classe
sociale denominata appunto “borghesia”[82].
Ma le
analisi del nostro autore non si fermano a questo. Preve afferma addirittura
che “lo stesso materialismo storico di Marx è [..] un prodotto storico
integrale della ‘coscienza infelice’ della borghesia europea, nella misura in
cui il suo codice filosofico si basa sull’analisi coerente dell’incompatibilità
fra universalizzazione reale della coscienza umana e particolarismo inevitabile
degli interessi privati capitalistici.
[..] Il
comunismo di Marx, basato sulle due nozioni di libera individualità integrale, da un lato, e di universalizzazione dei bisogni
del genere umano,
dall’altro, nozioni che risalgono entrambe alla filosofia classica tedesca e a
Hegel, punto massimo e vetta insuperata del grande pensiero borghese europeo, è un comunismo che viene
dialetticamente ricavato dalle determinazioni contraddittorie del pensiero
borghese stesso, e solo di esso”[83].
Come si
vede per il filosofo torinese il pensiero di Marx è stato il prodotto filosofico di uno svolgimento dialettico
della coscienza infelice della Borghesia, ossia il prodotto della
“consapevolezza filosofica borghese del fatto che all’interno della
produzionecapitalistica non ci potrà mai essere superamento
dell’alienazione, alienazione che non è altro che la coscienza infelice della
borghesia stessa di fronte alla propria stessa produzione parzialmente
inconsapevole e non voluta, il mondo dello sfruttamento capitalistico”[84].
In ogni
caso, il carattere post-borghese e post-proletario del moderno capitalismo non
significa affatto la fine delle sue contraddizioni, ma semplicemente il fatto
che queste contraddizioni non potranno più essere descritte e rappresentate
nella forma in cui sinora il marxismo le aveva interpretate.
3.3 Eccoci allora giunti
all’ultima parte prettamente teorica di questo capitolo. Come abbiamo visto
nello scorso paragrafo, la borghesia non è stata affatto rimpiazzata
dall’incalzante proletariato rinnovatore, ma entrambe le classi si sono in qualche
modo consumate e sono state assorbite all’interno di un ultracapitalismo oramai
mondializzato.
Ma da
dove trae origine quest’errore marxiano? Secondo Preve, è dovuto ad una particolare patologia storica occidentale, ossia “l’irresistibile
incantesimo della analogia storica come fattore di previsione storica
scientifica”[85].
Marx,
cadendo in quest’errore, aveva creduto che la transizione capitalismo-comunismo
potesse essere pensata attraverso la ripetizione del modello di transizione
feudalesimo-capitalismo.
In
quest’ottica, la presunta incapacità della borghesia capitalistica di
sviluppare le forze produttive è ricavata da Marx dall’analogia con la reale
incapacità dei ceti feudali e signorili di sviluppare le forze produttive. Ma
Marx si è visibilmente sbagliato: la produzione capitalistica infatti “si è
rivelata capacissima di sviluppare le forze produttive attraverso la
concorrenza capitalistica stessa, sia pure in un contesto di distruzione
ecologica e di uniformazione antropologica forzata del pianeta”[86].
Secondo
Preve “Marx confondeva il ripetersi ciclico delle crisi capitalistiche di
sovrapproduzione e di sottoconsumo, crisi cicliche che anziché indebolire
rafforzano la produzione capitalistica complessiva eliminandone via via i rami
secchi e le produzioni obsolete, con una crisi ‘mondiale’ del sistema”[87].
Questo
abbaglio fu ereditato dal movimento comunista successivo e da molti dei suoi
pensatori più eminenti, e così l’errata previsione marxista sull’incapacità
della borghesia di sviluppare le forze produttive e sulla capacità della classe
operaia e proletaria di attuare una vera e propria “transizione” (da un modo di
produzione ad un altro) non venne mai messa seriamente in discussione.
Inoltre,
secondo il nostro autore quest’incantesimo dell’analogia storica fece inevitabilmente compiere a
Marx un passo indietro rispetto al suo maestro Hegel (per cui come è noto
l’autocoscienza umana ideale può solo essere autocoscienza del presente storico
e non può ne deve “prolungarsi” in una incerta previsione del futuro). Marx si
rifiutava infatti di descrivere nei dettagli il proprio comunismo, poiché
capiva che questa era stata la via sterile caratteristica della tradizione
utopistica; ma, come fa prontamente notare Preve, “teneva fermo nell’affermare
il comunismo, sia pure nella vaga formulazione dell’esaurimento dei bisogni in
assenza di Stato politico e di mercato economico”[88]. Marx rinunciava a predeterminare le
forme, ma non rifiutava affatto a predeterminare il contenuto, ed il contenuto
del post-capitalismo era per lui il comunismo.
Per il
filosofo torinese però questa pretesa và fermamente abbandonata; un venturo
movimento anticapitalista deve accettare il fatto che “il futuro non è
predeterminabile non solo per quanto riguarda le sue forme, ma anche e
soprattutto per quanto riguarda il suo contenuto”.
Tramite
quest’errore tuttavia è possibile vedere chiaramente quanto il pensiero
aristotelico abbia influito su Marx. A differenza di Hegel, il filosofo di
Treviri (come abbiamo visto) ritiene di avere il diritto di concettualizzare il prolungamento comunista del capitalismo, e (secondo
Preve) lo fa proprio sulla base del principio aristotelico della categoria di
“essente-in-possibilità” (dynamei on)[89].
Il
comunismo marxiano non è pensato quindi come una semplice utopia, ma come lo
sviluppo di una sostanzialità presente già nel capitalismo.
3.4 Siamo così
pervenuti al termine di quest’ultimo capitolo, dedicato come è noto all’esame
di alcuni rilevanti errori marxiani. Prima di chiudere, accenneremo brevemente
alle conseguenze che il nostro autore trae da tutte queste analisi.
A
differenza di molti filosofi, in cui la presa di coscienza di queste ineliminabili
carenze coincise con l’abbandono del marxismo (visto come un paradigma
intrinsecamente contraddittorio di cui è necessario disfarsi), il nostro autore
ritiene sia possibile un ripensamento e una ripresa critica del pensiero di
Marx. A suo parere “l’errore di Marx si rivela essere un tipico errore
‘scientifico’ in senso fisiologico e non patologico[..]. Le scienze procedono
non nonostante gli errori, ma grazie agli errori, che ponendo il
problema della loro correzione pongono contestualmente la possibilità di
sintesi teoriche più avanzate e comprensive di elementi inediti”[90].
Preve
segnala come solo un pensiero pseudo-religioso possa pretendere la completa
infallibilità del proprio fondatore; gli errori e le inesattezze sono invece
qualcosa di fisiologico, ed anzi sono proprio questi sbagli che permettono alle
scienze di procedere.
Richiamandosi
alle analisi svolte da Thomas Kuhn, epistemologo di fama mondiale, il nostro
autore sostiene che “ogni scienza non procede per progressiva accumulazione
quantitativa di conoscenze, ma per rivoluzioni scientifiche, cioè per veri e
proprio ‘salti’ di modelli globali che vengono modificati ogni volta che non si
possono più ‘salvare’ i modelli precedenti con vari accorgimenti ad hoc. [..] Non vedo personalmente
nulla in contrario ad applicare la teoria dei paradigmi di Kuhn anche al
marxismo.Come Newton a suo tempo affermò che esistevano lo spazio e il
tempo assoluti, Einstein modificò radicalmente questa concezione, ma non per
questo la fisica come scienza finì, nello stesso modo a mio avviso il paradigma
marxiano potrebbe essere radicalmente riformato senza essere distrutto”[91].
Secondo
Preve il paradigma marxiano potrebbe essere rilanciato attraverso modificazioni
di tipo “kuhniano”, a partire dall’abbandono della teoria del crollo automatico
del capitalismo e alla rinuncia all’ipotesi del carattere rivoluzionario in sé
e per sé della classe operaia e del proletariato.
A questo
punto pèrò all’autore di questo saggio non resta che fermarsi, lasciando che a
questo critico compito si dedichi qualcuno più competente e dotato di lui.
Conclusione
In questo
breve saggio abbiamo tentato di delineare brevemente il profilo filosofico di
Costanzo Preve, pensatore sicuramente originale ed attuale, soffermandosi in
particolare sulle analisi da lui dedicate al pensiero di Karl Marx.
Non
intendo affatto sostenere che tutti gli argomenti sviluppati da Preve siano
corretti e inconfutabili. Ritengo anzi probabile e fisiologico che molte
questioni siano affrontate in maniera incompleta, imperfetta o del tutto
errata. Ma sono certo che i temi da lui affrontati siano centrali,
addirittura vitali, per chiunque voglia riprendere seriamente ciò che il
pensiero marxiano e marxista ha lasciato incompiuto. Sinora questo pensatore
non ha avuto l’attenzione che si è ampiamente meritato; ma un qualsiasi
movimento che si rifiuti pregiudizialmente di prendere in considerazione
tesi e questioni per esso essenziali, negandogli il dibattito e la disamina che
meritano, è destinato alla sconfitta ancor prima di nascere.
[1] Vedi l’ottimo libro di E.Mandel, La formazione del pensiero
economico di Karl Marx,
Laterza, Bari 1969 (ed. or. 1967), in cui l’autore ci dimostra, tra le altre
cose, come in un primo momento Marx rifiuti il terreno dell’economia politica,
e tenda ad accusare Ricardo di “ipocrisia” per la sua tesi che collega
strettamente i prezzi ai lavori contenuti nelle merci. Marx trova inutile
questo “raddoppiamento”, ed attribuendo agli economisti la tesi per cui il
lavoro è tutto, sospetta in loro una specie di intenzione “schiavistica”, per
cui le finalità spirituali sono riservate alla borghesia mentre il resto della
società è obbligata a lavorare per mantenere questi pochi privilegiati.
Mandel
dimostra appunto come siano decisive proprio le sei settimane passate a
Manchester (ospite dell’amico Engels) a far cambiare idea a Marx, che
affascinato dall’opera dei socialisti ricardiani (molto attivi sia nel
movimento cartista che in quello tradeunionista, e che interpretavano le teorie
di Ricardo come “diritto integrale del reddito da parte del lavoro stesso”) sia
portato a riconoscere proprio nell’economia politica e nella teoria del valore
la “scienza alienata” del modo di produzione capitalistico.
[4] Secondo Preve un altro punto di
contatto tra Aristotele e Marx si trova nel fatto che entrambi sdoppiano concettualmente
l’analisi della realtà economica, Marx con la distinzione fra economia politica
e critica dell’economia politica, ed Aristotele con la distinzione fra spazio
dell’economia e spazio della crematistica. A questo proposito in Elogio del comunitarismo Preve scrive: “La critica
dell’economia politica di Karl Marx è in realtà una critica della crematistica capitalistica (sottolineatura mia, N.d.A.)
condotta dal punto di vista di una comunità umana da ristabilire (Gemeinwesen),
di cui la lotta di classe proletaria è solo un mezzo e non un fine in sé, che
resta invece la comunità umana.” [C.Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, p.
102]
[9] Vedi per.es. N.Bobbio e al., Il marxismo e lo stato: il
dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio, Quaderni di “MondOperaio”, 6,
Edizioni Avanti, Roma 1976; o la raccolta Il marxismo e lo Stato, Quaderni di “MondOperaio”, 4,
Edizioni Avanti, Roma 1976, in cui sono raccolti molti dei saggi pubblicati da
vari autori (tra cui U.Cerroni, L.Colletti, P.Ingrao, V.Gerratana) usciti
inizialmente sulle pagine di riviste come “MondOperaio”, “Rinascita” e “Nuova
generazione”.
[10] Pierre Rosanvallon, Le capitalisme utopique, Seuil, Paris 1979 ; in
questo testo lo studioso francese mostra come la concezione dell’economia di
Adam Smith dia luogo ad una sorta di capitalismo utopico poiché il mercato, o meglio la
“mano invisibile” che dovrebbe reggerlo, è posto come fondamento autoregolativo
e soprattutto autoriproduttivo. Per Rosanvallon quella di Smith è l’utopia di
un meccanismo
economico autoreferenziale che non ha bisogno di nessuna regolazione di tipo
extraeconomico, e cioè politico.
[13] Vedi in particolare L.Colletti, Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, pp.246-252;
L.Colletti, Intervista politico-filosofica, Laterza, Roma-Bari 1974 ,
pp.29-30; L.Coletti, Tra marxismo e no, Laterza, Roma-Bari 1979, pp.155-161
[19] Basti pensare a figure del calibro di Kautsky, Hilferding, Della Volpe,
Geymonat, Althusser, Colletti, Sacristàn.. [Cfr. ad es. R. Young, Marxism and the history of science, in AAVV,
Companion to the history of science, Routledge, London, 1996, pp.77-86].
[23] Tesi sostenuta, per esempio, da
Rudolf Hilferding (N.d.A.) [vedi R.Hilferding , Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961
(ed.or. 1910)].
[28] C.Preve, Il pensiero di Marx e l’eredità
degli antichi Greci, tratto
da C.Preve-L.Grecchi, Marx e gli antichi greci, Petite Plaisance, Pistoia 2006,
p. 110
[41] Preve fa esplicitamente riferimento ad un brano dei Lineamenti in cui Marx scrive: “L’uomo è nel senso più letterale del termine uno zoon politikòn, e non
solo un animale socievole (ein geselliges Tier), ma un animale che non
può costituirsi come individuo singolo (sich vereinzeln) che nella
società [..] l’uomo non si individualizza che nel corso di un processo storico.
In origine egli appare come un ente generico (Gattungswesen), un ente
tribale (Stammwesen), un animale gregario (Herdentier), ma per
nulla come un politikòn zoon vero e proprio”. [Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze
1968, p. 98]
[44] Secondo Preve, Marx avrebbe in
questo caso ereditato un’idea presente già nell’umanesimo rinascimentale, ed in
particolare in Marslio Ficino [“Potest homo esse humanus deus, aut humana
bestia, aut aliud qudcumque”].
[49] D.Fusaro, Introduzione a C.Preve, Una approssimazione al pensiero
di Karl Marx, op.
cit., p. 10
[52] Il riferimento è chiaramente alla
tesi di laurea del 1841 incentrata sulla Differenza tra le filosofie della
natura di Democrito e di Epicuro, che può essere considerata la prima grande opera
di Marx
[53] K.Marx, Zur Kritik
der Politischen Oekonomie, Einleitung 1857; tr. it. Per la critica dell’economia
politica, Introduzione, Editori Riuniti, Roma 1957, a
cura di M.Dobb, p. 5
[68] Riprendiamo qui pressocchè
inalterato lo schema proposto da André Tosel in una sua recente introduzione
[Vedi Storia
critica del marxismo, op.
cit., pp. 7-22]
[69] Per un’elaborata esposizione di
questo tema, C.Preve, Il Bombardamento Etico, Editrice C.R.T., Pistoia 2000;
oppure, C.Preve, Il paradosso De Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006
[74] Vedi per es. G.La Grassa, Lezioni sul capitalismo, CLUEB, Bologna 1996; G.La
Grassa-C.Preve, La fine di una teoria, Unicopli, Milano 1996; G.La
Grassa, Il comunismo fallibile, Editrice C.R.T., Pistoia 1998
[75] Queste analisi si basano sullo
studio del Capitolo VI inedito del primo libro del Capitale di Marx
[82] Vedi le analisi sviluppate nella
sua recente Storia dell’etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007, in particolare
pp.109-128
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