La revolución made in Hong Kong
Il capitale finanziario cinese compra, per decine di miliardi di dollari, una ferita che taglierà in due il paese di Sandino. La “monarchia” di Daniel Ortega vuole nuovamente passare alla storia. Questa volta non per aver abbattuto la dittatura sadica di Anastasio Somoza, ma per distruggere una volta per tutte il tessuto sociale e l’ecosistema di un fazzoletto di terra abitato da gente che seppe trasformare la burocrazia arrogante dei militari in un laboratorio di democrazia.
da Managua, Alberto Zoratti
A volte tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare. E se quest’ultimo, poi, è diviso da un istmo neanche tanto ampio, basta qualche ruspa, un po’ di dinamite e tanto lavoro a basso costo ed ecco che l’uomo riesce ad unire ciò che la natura ha diviso. Nicaragua, centroamerica. Uno dei Paesi più sostenuti, partecipati e sognati degli anni ottanta, la patria della rivoluzione popolare e del sandinismo e, oggi, uno dei Paesi diplomaticamente più attivi sul fronte del cambiamento climatico sceglie di dividersi a metà e lo fa con l’intervento, pesante, dell’industria cinese con sede ad Hong Kong. Nel giugno scorso il presidente Daniel Ortega e il quarantenne rampante cinese Wang Jing, presidente della Hong Kong Nicaragua Canal Development Investment (HKND Group), hanno firmato un accordo per la costruzione del Canale del Nicaragua, una delle più imponenti opere ingegneristiche al mondo, che unirebbe la costa pacifica con la costa atlantica, passando per il Cocibolca, il lago Nicaragua, il più grande del Paese.
“Una profezia che si trasforma in realtà” ha dichiarato la First Lady Rosario Murillo alla firma dell’accordo. Un incubo per i movimenti ambientalisti e per la società civile che dietro ai presunti vantaggi vedono un disastro di proporzioni bibliche. Basti pensare all’ecosistema del Cocibolca, più di 8mila chilometri quadrati di acqua dolce, che verranno definitivamente annientati dalla costruzione del canale. Non che il Mar Dulce, come viene chiamato il lago, sia proprio in forma, considerato il pesante inquinamento che ha dovuto subire a causa di aziende scellerate come l’americana Pennwalt Chemical Corporation denunciata dall’Istituto per le Risorse Naturali di aver pompato negli anni settanta dalle due alle quattro tonnellate di mercurio nel lago ogni anno. Avvelenando ambiente, comunità e 56 dei suoi oltre 150 lavoratori. Ma se lo sviluppo sotto il somozismo è stato poco gentile, la costruzione del Canale mette la parola “fine” ad ogni speranza di riscatto.
Quanto costerà, chi pagherà, dove finiranno i soldi non è chiarissimo. Si parla di oltre 40 miliardi di dollari finanziato da un consorzio cinese che recupererebbe l’investimento trattenendo buona parte delle entrate del Canale, quando operativo. Quello che si sa sono ciò che dichiarano i primattori di questa tragedia annunciata. Come l’HKND group, che sottolinea come l’opera che tutto il mondo richiede (almeno ai loro occhi che sono i diretti interessati) verrebbe data in concessione a loro per 100 anni. Così come avrebbero l’esclusiva per costruire annessi e connessi, nuovi aeroporti, strade e, giusto per non farsi mancare nulla, nuove Free Trade Zones, da unire a quelle già presenti, dove derogare in diritti sociali ed ambientali. Altre grandi declamazioni vengono dal Governo sandinista, che già sventola l’accordo come un grande affare per il popolo nicaraguense, considerato che i lavori dovrebbero aumentare gli occupati dagli oltre 620mila del 2012 a quasi due milioni nel 2018, in piena costruzione del canale. Cifre contestate, come ricorda l’economista Adolfo Acevedo dalle pagine del quotidiano La Prensa, che sottolinea come, in verità, a progetto concluso l’incremento dell’occupazione sarà attorno alle 30mila unità, circa l’1% di tutti gli occupati del Paese (considerando che il Canale di Panama non occupa più di 9mila persone).
Un progetto che taglierà in due il Nicaragua. Ma non solo dal punto di vista fisico. Manuel Hortega Hegg, sociologo dell’Academia de Ciencias de Nicaragua, ammonisce che un’opera così mastodontica in un Paese così piccolo porterà una rivoluzione nella struttura sociale con (pochi) che guadagneranno e (molti) che ancora una volta subiranno le conseguenze introducendo “una nuova configurazione classista nel Paese”. E tutto questo per prospettive che non sembrano in discesa, considerata la competizione con la rotta a Nord Ovest (che con lo scioglimento dei ghiacci a causa del cambiamento climatico sta diventando una rotta a basso costo) e con il vicinissimo Canale di Panama il cui amministratore, Jorge Quijiano, pare non particolarmente preoccupato (un’opera lunga tre volte quella panamense “ci dà un vantaggio competitivo ancora maggiore” ha dichiarato all’Associated Press). Ma la geopolitica impone sacrifici, e se Panama è controllato dagli Stati Uniti, allora si proceda con un’opera sostanzialmente uguale a due isolati di distanza, ma controllata dalla Cina.
La retorica politica è il sonno della ragione che genera mostri. L’idea che un mondo multipolare, con un rafforzamento dello schieramento del Sud del mondo grazie a Governi presunti “amici”, potesse cambiare un modello di sviluppo devastante si è scontrato con le grandi dighe cinesi e brasiliane, i progetti estrattivi boliviani, il petrolio del defunto Chavez ed, ora, con il Canale sandinista. Giustizia sociale, giustizia climatica e democrazia non possono camminare disgiunti. Indipendentemente dal colore della maglietta che indossa il presidente, delle parole con cui si riempie la bocca e della storia a cui si riferisce, quello che conta sono i fatti.
Il 13 giugno scorso Daniel Ortega il rivoluzionario ha dovuto schierare la polizia contro la gente che protestava contro l’accordo sino-nicaraguense. “La popolazione approva tutti i programmi di questo Governo”, ha dichiarato al momento del voto Odell Incer, membro sandinista del Congresso nicaraguense. Come dice il motto del Fronte sandinista al Governo, “El Pueblo, presidente!”. Viva la democrazia, appunto.
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